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L’Italia ce la farà? Ecco tre scenari
L’autore di questo post è il professor Enrico Colombatto, docente di Economia all’università di Torino, autore di L’Economia Che Serve. Il post è stato pubblicato su GIS Reports –
La precarietà dei conti pubblici italiani è cosa ben nota: il debito pubblico del Belpaese ammonta a circa il 132 per cento del prodotto interno lordo, il deficit potrebbe facilmente raggiungere il 3 per cento del Pil alla fine di quest’anno e l’economia sta crescendo a un tasso annuo dell’1,2 per cento circa. Insomma, l’elevato indebitamento pubblico rende l’Italia vulnerabile a un aumento dei tassi di interesse, mentre la lentezza della crescita economica complica gli sforzi per ridurre l’onere del debito in rapporto al Pil.
Tutto questo preoccupa la comunità finanziaria internazionale, come testimoniato dallo spread sui buoni del Tesoro decennali italiani, che è balzato da 120 punti base nel maggio del 2018 a oltre 300 punti base a metà agosto. Se l’Italia non è riuscita ad approfittare dell’atteggiamento benevolo della Banca centrale europea – tassi di interesse estremamente bassi e acquisti cospicui di titoli di Stato italiani – che cosa succederà quando le autorità monetarie dell’Eurozona torneranno su posizioni meno generose? E che cosa farà Bruxelles se il quadro dei conti pubblici italiani dovesse deteriorarsi ulteriormente?
In realtà, il contesto italiano è preoccupante, ma non disperato. Il deficit al momento è modesto, e se le autorità riuscissero a congelare la spesa pubblica in termini reali e rendere l’economia un po’ più business-friendly, il tasso di crescita potrebbe raddoppiare e ridurre gradualmente il peso relativo del debito. Naturalmente, i miglioramenti potrebbero essere ancora più rapidi se la spesa pubblica venisse congelata in termini nominali o tagliata; ma il timore della maggior parte degli osservatori è che non solo ciò non accadrà, ma anzi che il Governo populista attualmente al potere si muoverà nella direzione opposta.
Politica o programmi?
Di sicuro, se il Governo seguisse il programma economico dei due partiti al potere – il Movimento Cinque Stelle e la Lega – il disastro sarebbe inevitabile. Fra la proposta della Lega – aliquota unica al 15 per cento sul reddito personale e riduzione della tassazione indiretta – e il reddito universale garantito (in aggiunta alle misure di welfare esistenti) promesso dai Cinque Stelle, il disavanzo di bilancio salirebbe a quasi l’8 per cento del Pil, e schizzerebbe al 10 per cento tenendo conto del prevedibile aumento dei costi per il servizio del debito.
Fino a fine luglio i mercati non si sono preoccupati troppo, forse perché gli operatori confidavano nel fatto che questi programmi economici erano promesse vuote, fatte per guadagnare voti. La situazione si è deteriorata quando è diventato evidente che sì, quelle promesse elettorali erano parole al vento o poco meno, ma quello che restava era ancora largamente preoccupante, anche se non catastrofico come sembrava.
Per dirla in altri termini, anche se il rischio che l’Italia abbandoni la moneta unica si è ridotto, i politici scriteriati che sostenevano un’idea del genere restano al potere e sono in grado di fare danni notevoli. È ormai evidente che questi leader sono inclini a seguire l’umore del momento e a incolpare il «capitalismo senza regole» di ogni sorta di problemi. Anche se non hanno il coraggio per fare mosse catastrofiche, sono sufficientemente incompetenti da creare incertezza e spaventare gli investitori.
In questo contesto, potrebbero venirsi a creare tre scenari. Quale di essi sia più probabile lo si capirà a settembre, e ognuno genera prospettive diverse per le finanze pubbliche. Uno scenario è che i partiti della coalizione decidano di realizzare le aspettative dei loro elettori (flat tax e reddito di cittadinanza). Il secondo è che gli italiani si ritrovino di fronte a una versione annacquata delle due promesse. Il terzo emergerebbe se i due partiti finissero per entrare in conflitto sulle misure da prendere, mandando in frantumi la coalizione.
SCENARIO 1: promesse mantenute
Come accennato, l’introduzione di un’aliquota unica del 15 per cento e di un reddito di base universale sarebbero misure molto costose. Senza contare che sarebbe difficile introdurre una cosa e accantonare l’altra. Se venisse varata soltanto la flat tax, gli elettori dei Cinque Stelle non capirebbero perché il Governo favorisca i «ricchi» del Nord abbandonando a se stessi i poveri del Sud, dove il movimento ha preso la maggior parte dei suoi voti. Inversamente, quelli che hanno votato per la Lega (concentrati soprattutto al Nord) insorgerebbero se fossero costretti a trasferire ulteriori risorse al Sud senza nessuna compensazione sotto forma di tasse più basse.
La coalizione può riuscire a centrare entrambi questi obbiettivi mantenendo il deficit entro limiti ragionevoli? Per farlo, dovrebbe tagliare la spesa di almeno 100 miliardi di euro, cosa politicamente impossibile. Quando il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha suggerito di eliminare il bonus introdotto dal Governo Renzi a favore delle famiglie a basso reddito (con un costo intorno ai 10 miliardi di euro ogni anno), i leader della coalizione in carica lo hanno sbeffeggiato e hanno cestinato la proposta. Sforbiciare la burocrazia e altre spese (che siano le pensioni, l’istruzione o la sanità) sarebbe suicida per qualsiasi partito populista, e l’attuale coalizione gialloverde non fa eccezione. Anzi, pochi giorni fa, l’attuale ministra ed esponente della Lega Giulia Bongiorno ha fatto sapere che l’Italia ha bisogno di assumere 450mila nuovi dipendenti pubblici.
In altre parole, se le promesse verranno mantenute la conseguenza sarebbe un qualche tipo di default alla greca. A seconda di come reagirebbe il Governo a questo default, seguirebbero tre scenari: uno includerebbe un piano di salvataggio organizzato dall’Unione Europea, condizionato all’osservanza da parte dell’Italia di rigide regole di bilancio imposte da Bruxelles e Francoforte; in alternativa, l’Italia potrebbe semplicemente dichiarare il default senza lasciare l’euro: quelli che hanno in portafoglio buoni del Tesoro italiani perderebbero un mucchio di soldi e per molto tempo il Governo italiano si troverebbe nella virtuale impossibilità di chiudere il bilancio in disavanzo; una terza soluzione richiederebbe un’uscita dell’Italia dall’euro, con introduzione di controlli sui capitali e stampa di moneta per finanziare le sue spese folli: insomma, Maduro senza il petrolio o Erdoğan senza Allah.
SCENARIO 2: spesa modesta
Il secondo scenario è più realistico e maggiormente in linea con la tradizione politica italiana. Per dirla in parole semplici, il Governo potrebbe scegliere di non fare nulla per ridurre l’attuale deficit di bilancio e incrementare la spesa pubblica a favore di pensionati a basso reddito e disoccupati. Ma un incremento del genere sarebbe relativamente modesto, abbastanza per scaricare sull’Unione Europea (e magari su Tria) la responsabilità di non poter fare di più, ma non tanto da scatenare guai finanziari seri. Il debito pubblico italiano probabilmente smetterebbe di fare notizia e il differenziale sui rendimenti scenderebbe intorno ai 220 punti, almeno fino alla prossima primavera.
Perché questo scenario possa funzionare, devono succedere alcune cose: il Governo di coalizione deve restare compatto; il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, deve dichiarare esplicitamente che il disavanzo non supererà il 2 per cento del Pil, senza essere strapazzato dai leader della coalizione; infine, i tassi di interesse a livello mondiale non devono salire sensibilmente (questo non succederà).
SCENARIO 3: scontro
Un terzo scenario si materializzerebbe se la coalizione dovesse andare in pezzi prima della fine dell’anno. Con ogni probabilità, il leader dei Cinque Stelle, Luigi Di Maio, e il leader della Lega, Matteo Salvini, vogliono evitare di scatenare uno scontro prima delle prossime elezioni europee, in programma per maggio 2019. Ma l’incompetenza dei due leader (e dei loro consiglieri più stretti) potrebbe provocare tensioni non volute e la situazione potrebbe andare fuori controllo. Molto dipenderà dalla capacità di Di Maio e Salvini di comprendere che non possono al tempo stesso agitare le acque e rimanere al potere, e dalla loro capacità di imporre la disciplina nelle file dei rispettivi partiti.
Salvini sembra avere il controllo della situazione, e probabilmente sa bene che il suo elettorato può accontentarsi che non aumenti le tasse e non crei problemi con l’Ue. Luigi Di Maio è in una posizione più fragile: se dovesse indebolirsi, Salvini dovrà prendere rapidamente le distanze da misure impopolari e chiedere al presidente Sergio Mattarella di convocare nuove elezioni. Poi dovrà vincerle e mettere insieme un nuovo Governo con i partiti moderati, che al momento ammontano a due.
Entrambi navigano in pessime acque: Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi, è debole e raggranellerebbe a malapena il 10 per cento dei voti, mentre il Partito democratico di Matteo Renzi è un contenitore vuoto accreditato dai sondaggi di circa il 15 per cento dei consensi. Salvini potrebbe stringere un accordo con quel che resta di Forza Italia, o magari assorbirla, evitando così di dover scendere a compromessi. Ma è una manovra molto più facile da descrivere che da mettere in atto, tutto considerato.
Nel frattempo, con il debito italiano tutto può succedere. Basandoci sulla passata esperienza, si può ipotizzare con un certo fondamento che non succederà nulla. Ma una crisi politica potrebbe portare anche instabilità, incrementi di spesa, riduzione delle entrate e regolamentazione rampante. In una situazione simile, l’implosione del Movimento Cinque Stelle non sarebbe più una buona notizia, ma l’inizio di problemi molto seri.
Twitter @Colombatto
(Traduzione di Fabio Galimberti)