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Il boom delle Srl ha il fiato corto: in Italia urge una scuola d’impresa
Il numero delle imprese italiane cresce. Ce ne dà conferma un report pubblicato dall’ISTAT poco meno di un mese fa, 27 luglio 2018. Il tasso di natalità, nel quinquennio preso in esame, 2011-2016, corrisponde al 7,7%. Solo nel 2016, s’è attestata la nascita di ventimila aziende in più. Al primo posto per capacità di riproduzione imprenditoriale, troviamo inaspettatamente il Mezzogiorno, che fa registrare, nell’ultimo anno oggetto di studio (2016) addirittura un incremento dell’8,9%. In materia di forma giuridica, la preferenza degli italiani è inequivocabile: le società di capitale e, in particolare, la Società a responsabilità limitata dominano la scena. Le cifre sono inarrivabili, al di fuori di ogni pensabile concorrenza: in pratica, su 4.390.911 società attive 856.354 sono Srl; la qual cosa deve condurre tutti noi a un primo momento di dubbio scettico, come nella migliore delle tradizioni cartesiane, specie se consideriamo che 2.757. 432 di esse sono rappresentate da imprese individuali e, di conseguenza, molto poco determinanti in termini di occupazione e produzione.
Il dubbio che abbiamo appena proposto deve ora tradursi in un interrogativo euristico: per dirla in parole povere, quali sono gli utili di queste società e quanto benessere generano per sé stesse e per il territorio entro il quale operano? Va precisato, fin da ora e a scanso di equivoci, che non è in atto un tentativo di designare aziende di serie A e aziende di serie B; diversamente, si sta solo tentando di fare pura osservazione empirica, che è alla base di un sano metodo scientifico. A tal proposito, non a caso, il trend positivo appare in netto contrasto con l’idea dell’espansione, della produttività e della competitività o del benessere che possiamo trarne. A fronte del summenzionato tasso di natalità, infatti, si rileva un tasso di mortalità imprenditoriale stazionario ed equivalente all’8,2%, dato, quest’ultimo, che, tra le altre cose, indica un calo rispetto al passato. Nel 2016, sono venute a mancare, per così dire, 316.786 imprese. Nel quadro statistico che andiamo scoprendo, ciò che più ci dovrebbe preoccupare è il quasi totale bilanciamento tra natalità (3,8%) e mortalità (3,9%) delle attività ad alta tecnologia e di quelle ad alto contenuto di conoscenza.
In sostanza, il vero deficit è, prima di tutto, culturale. È molto probabile – ci si conceda una certa libertà d’interpretazione! – che, nel nostro paese, si stia configurando una sorta di inerzia socio-economica, che, sulle prime, in effetti, saremmo spinti ad ascrivere alla stretta creditizia e al difficile rapporto tra banche e PMI, ma che, di fatto, ci costringe a documentare un’autentica disfunzione finanziaria e imprenditoriale lungo l’asse impresa-banca-produzione/servizio.
Con un esempio concreto e che rinvii ai problemi della quotidianità micro-aziendale, possiamo farcene subito un’idea. La liquidità costituisce, per lo più, il bisogno primario e ‘conclamato’ di un’azienda, cosicché la corsa allo sportello bancario diventa la prima cosa che venga in mente a un qualsivoglia amministratore. Competenza e professionalità, tuttavia, dovrebbero impedirgli di procedere alla carlona. In seguito agli accordi di Basilea 2 e 3, infatti, ogni azienda richiedente è sottoposta a un severo giudizio di affidabilità, che viene ‘matematicamente’ tradotto in un rating. Gli indicatori essenziali a una richiesta di liquidità sono tutti inscritti nel bilancio, la cui analisi potrebbe consentire a uomini e imprese di evitare avventure da armata Brancaleone.
Qui subentra la decisiva e baconiana pars destruens del presente lavoro… Quanti amministratori di Srl dell’amplissimo contesto piccolo-imprenditoriale sanno leggere adeguatamente un bilancio e quanti, invece, si limitano ad apporre una firma sul documento redatto dal commercialista? E inoltre: quanti amministratori sono pronti ad affidare in outsourcing la gestione di ciò per cui non possiedono le competenze?
È evidente che non si può fare di tutta l’erba un fascio, ce ne guardiamo bene, ma non si può passare sotto silenzio che esiste una stretta relazione tra microimprese, fatturato, titolo di studio e relativa competenza e, dal momento che sappiamo per certo – almeno per averlo acquisito dalle indagini ISTAT – che in Italia prevale il ‘modello aziendina’, non poniamo alcun indugio nel denunciare lo stato di cose dell’economia reale come vulnerabile e preoccupante.
Analizzando il grafico prodotto dall’Osservatorio Nazionale sui Bilanci delle Srl della Fondazione Nazionale dei Commercialisti, ci rendiamo conto che le imprese il cui fatturato non supera i 350.000 euro sono in schiacciante maggioranza, 507.450 su un totale di 819.883. Se incrociamo queste acquisizioni con quelle derivanti dalla sezione microdati del report ISTAT sulla demografia d’impresa, scopriamo che, tra lavoratori dipendenti, indipendenti ed esterni del mondo imprenditoriale italiano, più di 700.000 non hanno alcun titolo o attestato di scuola primaria e più di 5 milioni, invece, possiedono solo un diploma di licenza secondaria di primo grado.
È inevitabile, allora, tornare a trattare le tanto ‘chiacchierate’ società a responsabilità limitata, giacché le agevolazioni costitutive verosimilmente si trasformano presto in impedimenti. In genere, soci e fondatori di una Srl, in fatto di rischi personali, si sentono al sicuro e ricorrono a questa forma giuridica quale protezione universale della propria vita economica e professionale. Con le società di capitali, infatti, in caso d’insolvenza o fallimento, il patrimonio personale è sufficientemente tutelato perché viene attaccata la personalità giuridica della società.
Se è ormai risaputo che una Srl ordinaria può essere istituita anche con un capitale sociale inferiore ai 10.000 euro, il 25% dei quali tuttavia deve essere vincolato in banca a conferma dell’autonomia patrimoniale, è altrettanto noto il boom del Srl semplificate, le cosiddette società a 1 euro introdotte col Decreto Liberalizzazioni del 2012 e perfezionate col Decreto Lavoro del 2013.
Siamo davvero sicuri, però, che queste misure generino agevolazioni autentiche per fondatori e soci, in considerazione dei numeri piuttosto sconfortanti che abbiamo documentati? Qualcuno ha detto a certi giovani e incauti imprenditori che la credibilità bancaria delle società a 1 euro è pressoché nulla? E sia chiaro: non intendiamo demotivarli, al contrario, vogliamo solo proteggerli da devianti illusioni! Sarebbe troppo facile usare poi la disillusione per diffondere malcontento e litanie del lamento contro la cattiveria delle banche.
Ora, il lettore frettoloso e infido dirà che stiamo difendendo la casta, le banche e gli orditi plutomassonici interplanetari. A costui rispondiamo subito così: non hai capito un’acca dell’intero discorso. Come i più attenti hanno già notato, comincia a prendere forma anche dalle nostre parti il private equity, vale a dire un metodo di finanziamento alternativo a quello bancario e mediante il quale gli investitori istituzionali rilevano quote di società ad alto valore di crescita fornendo a esse la ‘liquidità’ di cui hanno bisogno, ma questi investitori non sono benefattori o confraternite di primo soccorso, puntano legittimamente alle plusvalenze. Di conseguenza, per attirare certi capitali ci vogliono requisiti molto più importanti che nel caso precedente.
La strada da percorrere, a nostro avviso, dovrebbe essere quella dell’alfabetizzazione finanziaria di un paese in cui il bilancio è ancora percepito solo come obbligo contabile e fiscale, non già quale strumento di programmazione e ‘profitto’, e in cui si pensa di poter sostenere l’intera iniziativa imprenditoriale medio-piccola con le entrate monetarie della gestione caratteristica, senza che si abbia contezza del flusso di cassa operativo. Un amministratore, quando fosse sufficientemente preparato, avrebbe il compito di redigere una propria relazione sulla gestione da aggiungere alle sezioni del bilancio, stato patrimoniale, conto economico e nota integrativa, così da indicare un piano di sviluppo. Ma, purtroppo, restiamo nella modalità di scrittura ipotetica.
Negli ultimi mesi, ben oltre ogni malevola prospettiva di riesame della nostra economia, la semantica del nulla e dell’astrazione ha soffocato ogni forma, matura o neonata, di progresso. Si dice che un presunto e diabolico neoliberismo avrebbe privato il cittadino di risorse, forzando il comune senso dello scandalo; si terrorizza il popolo sul debito, annullando ogni naturale rapporto tra l’economia reale e il pericolo inflattivo; si fanno conferenze e si scrivono libri in nome di un assistenzialismo innominato, diffondendo il virus della pigrizia tra la gente, che finisce con l’accontentarsi e ripiegare sulla speranza. Si fa tutto questo e anche di più, ma si continua a tenere la persona a debita distanza dall’utilità e dall’importanza della tecnologia, dal vero significato di liberismo, dall’originaria valenza delle manovre keynesiane e, soprattutto, dal valore della ricerca scientifica.
Il timore generale, che si muta per lo più in allarme virale e, successivamente, in panico, fa nascere movimenti d’opinione impropri, impertinenti e inconcludenti i cui protagonisti finiscono col ‘protestare pur di protestare’ non perché siano in cattiva fede, ma perché sono essi stessi espressione biofisiologica dell’incertezza, dell’incultura, della pavidità e dell’errato uso della deduzione politica, il maggiore, quest’ultimo, tra i difetti delle democrazie.
Fare impresa, a questo punto, potrebbe equivalere a un oltraggio alla visione comune della morale perché occorrerebbe assumersi, non tanto il rischio di capitale, quanto piuttosto un nuovo rischio, quello di metodo: in Italia, è quanto mai necessaria una scuola d’impresa, un processo formativo che rigeneri la nostra disponibilità intellettuale.
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