I social media sono inutili per le aziende? Il caso dei pub Wetherspoon

scritto da il 25 Luglio 2018

Pubblichiamo un post di Roberto Fedi, libero professionista con esperienza internazionale in management, value innovation e marketing strategico –

Il senso comune suggerisce che le decisioni aziendali siano razionali, fondate su dati e strategie. Talvolta sono invece prese in base a luoghi comuni o seguendo la pressione sociale. Ad esempio, i social media sembrano essere diventati uno dei casi di ciò che potremmo definire common nonsense: le aziende non possono prosperare senza un’attiva presenza sulle reti sociali, meglio se con canali propri, per irradiare contenuti di marca, creare comunità di entusiasti e acquisire nuovi clienti.

È indubbio che Facebook & Co. stiano trasformando la vita individuale e sociale in tutto il pianeta (nel bene e nel male). Con oltre tre miliardi di utenti, pari al 42% della popolazione mondiale e al 79% dell’utenza di Internet (1), i media sociali hanno conquistato attenzione e attratto investimenti crescenti da parte di molte imprese, dalle grandi multinazionali al fornaio sotto casa. Però la loro efficacia come piattaforme di comunicazione e per lo sviluppo commerciale sembra essere più il prodotto di un’infatuazione di massa che una realtà basata su fatti.

Birra e sobrietà
J D Wetherspoon plc, azienda inglese che gestisce una delle catene di pub più popolari nel Regno Unito, si è recentemente liberata dall’incantesimo: il 16 aprile scorso annunciò l’abbandono dei propri canali su Facebook, Instagram e Twitter, inclusi quelli dei singoli gestori di pub.

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I canali della sede contavano circa 100.000 follower su Facebook, 44.000 su Twitter e 6.000 su Instagram. Allo stesso tempo, l’azienda confermò il mantenimento del proprio sito internet, della propria app e – udite, udite – della propria rivista, quella stampata con inchiostro su carta!

L’iniziativa venne accolta con stupore e disapprovazione dalla stampa britannica. Ad esempio, The Independent la definì una “decisione bizzarra” (2), mentre la senior culture reporter di Mashable articolò così la sua condanna: “Nell’era in cui le marche competono per attenzione e simpatia su Facebook, Instagram, Twitter e Snapchat, un’azienda britannica ha fatto l’impensabile: abbandona completamente i social media” (3). Al coro delle critiche si aggiunsero molti professionisti, come il direttore creativo di una agenzia di comunicazione (digital, ovviamente) che sulla prestigiosa Campaign titolò: “La chiusura dei canali sociali di Wetherspoon è come fare la pipì controvento” (4).

Fra i pochi a sostenere la decisione di Wetherspoon furono gli investitori (+1,5% del titolo in un giorno) (5) e Mark Ritson, adjunct professor di marketing all’Università di Melbourne, con un articolo su Marketing Week (6). La stampa italiana, inclusa quella specializzata, ignorò completamente la notizia, perdendo l’opportunità di fare alcune riflessioni importanti anche per le aziende italiane.

Vediamo anzitutto i motivi elencati da Wetherspoon nel loro comunicato alla stampa:
1) la pubblicità negativa contraria ai media sociali;
2) gli abusi dei dati personali e la capacità di indurre dipendenza da parte dei media sociali;
3) la prevista assenza di effetti negativi sul proprio business.

Sul primo punto l’azienda citò casi di molestie a parlamentari e a minoranze etniche e religiose avvenuti nei mesi precedenti in Gran Bretagna. A questi possiamo aggiungere la recente campagna contro Facebook (si vedano gli attacchi di George Soros all’ultimo forum di Davos o lo scandalo di Cambridge Analytica). Oltre alle questioni di natura politica, i social media sono sotto pressione per la cosiddetta “sicurezza della pubblicità” (brand safety): le aziende hanno uno scarso controllo sul contesto nel quale vengono posizionati i loro messaggi di marca, i quali possono apparire accanto a contenuti sconvenienti.

Il secondo motivo evidenzia, a mio avviso, un’apprezzabile responsabilità sociale. Il saccheggio della privacy e la dipendenza dai media sociali sono fenomeni reali con implicazioni potenzialmente devastanti. A questo proposito, il fondatore e presidente Tim Martin dichiarò: “Sta diventando sempre più evidente che le persone trascorrono troppo tempo su Twitter, Instagram e Facebook, e hanno difficoltà a controllare la propria ossessione”.

Qui vorrei concentrare l’attenzione sul terzo motivo, la prevista mancanza di effetti sui risultati economici, come espresso chiaramente dallo stesso Tim Martin: “Andiamo contro la convinzione comune, secondo la quale queste piattaforme sarebbero una componente vitale per un’impresa di successo. Non credo che chiudere questi canali inciderà in alcun modo sul nostro business, e questa è la convinzione prevalente dei nostri gestori di pub”.

È utile chiarire che questa decisione così controversa è stata presa da un’azienda di successo in un mercato altamente competitivo. J D Wetherspoon è stata sempre profittevole e con ricavi in crescita a partire dalla quotazione in Borsa nel 1992 (LSE). Nell’anno fiscale terminato nell’agosto 2017, ha registrato 1,7 miliardi di sterline di ricavi e un profitto di 103 milioni di sterline, rispettivamente +4% e +28% sull’anno precedente.

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Inoltre, la crescita degli affari è dovuta non solo all’incremento del numero dei propri pub (giunti a circa 900 nel 2018), ma anche e soprattutto al costante miglioramento delle vendite medie per pub, cresciute a oltre 2,5 milioni di euro all’anno.

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Where is the beef?
Stabilito che J D Wetherspoon non è un’organizzazione di dilettanti, vediamo i numeri che confermano la validità della loro decisione. Nella ristorazione, la loro catena di pub conta circa 17 milioni di clienti unici in un semestre e compete per acquisirne altri 31 milioni. Per il consumo di sole bevande, i clienti unici semestrali sono circa 12 milioni, ai quali si aggiungono 17 milioni di clienti potenziali. Nel complesso, i loro ricavi dipendono dalla capacità di competere in un mercato di 48 milioni di persone per i pasti e 29 milioni per le bevande. Se confrontiamo questi dati con i loro follower sui canali sociali, otteniamo percentuali che dovrebbero far riflettere molte aziende.

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Considerando che i loro pochi messaggi nel 2018 generarono pochi gradimenti e condivisioni (la stampa inglese riportò una media di sei inoltri e quattro cuoricini su Twitter), è legittimo assumere che le stime di copertura sui target group restino nell’ordine di grandezza dello “zero virgola”. Non è necessario essere esperti in media planning per intuire che tali livelli non sono forieri di grandi incassi.

Il livello di copertura dei mercati di riferimento è fondamentale per l’efficacia delle attività di comunicazione. I clienti esistenti devono essere “coperti” per consolidare o incrementare le loro abitudini di acquisto o consumo; quelli potenziali devono essere raggiunti per essere acquisiti, non solo per crescere, ma anche per sostituire i ricavi provenienti dai clienti che si estinguono o che defezionano. Le attività di comunicazione che coinvolgono pochi punti percentuale delle basi di clienti esistenti e potenziali rappresentano uno spreco di risorse o, nei casi migliori, un modesto complemento – comunque non di valore strategico.

Non a caso, il responsabile della comunicazione di JD Wetherspoon, Eddie Gershon, dichiarò: “Datemi un articolo di 200 parole su The Sun o The Times, invece di un tweet” (7).

Le médias sociaux c’est moi!
Come già udito in Inghilterra, possiamo immaginare le proteste dei nostri appassionati di social media. Ad esempio: “Wetherspoon non ha cultura digitale!” Qui farei due osservazioni. Anzitutto, la priorità di un’azienda dovrebbe essere una cultura di orientamento alla domanda, non la predilezione per una tecnologia o per uno strumento.

Inoltre, la distinzione fra digitale e non digitale sta perdendo di significato, in quanto queste proprietà coesistono in modo crescente in quasi tutti gli ambiti dell’attività aziendale, della distribuzione e della comunicazione. Aziende importanti come la L’Oréal stanno iniziando a liberarsi da questa falsa dicotomia; il loro responsabile marketing, Stéphane Bérubé, dichiarò recentemente che “dobbiamo smettere di parlare di digitale – è tutto parte del marketing” (8).

Tornando al nostro oste, la Wetherspoon App, lanciata nel marzo 2017, è stata scaricata tre milioni di volte ed è tuttora una delle applicazioni più popolari nella categoria Food & Drink in Gran Bretagna. Sull’App Store per iOS è al terzo posto e ha una valutazione media di 4,7 su 5, mentre su Google Play per Android è al secondo posto con una valutazione di 4,2 su 5.

A differenza dei numeri di chi li seguiva sui media sociali, tre milioni di utenti rappresentano importanti quote nei loro mercati di riferimento. Inoltre, le funzioni della loro app costituiscono un’integrazione significativa del loro servizio: i clienti possono ordinare e pagare dal tavolo, senza fare la coda al banco, e ricevere cibi e bevande direttamente al tavolo. I benefici sono sostanziali per chi, ad esempio, non vuole interrompere una conversazione con la famiglia o con gli amici al tavolo o per chi vuole evitare di trasportare un vassoio attraverso un locale affollato. Questo mostra una buona competenza digitale nell’incrementare il valore del servizio ai clienti.

I fan delle reti sociali insisteranno: “Wetherspoon non sapeva gestire i social media!”, puntando al numero dei loro follower. Questo è probabile; tuttavia Tim Martin e i suoi manager hanno dimostrato di saper gestire un’impresa di successo e, soprattutto, di conoscere bene i loro clienti. Hanno anche intuito che i media sociali non solo non aggiungono valore ai loro affari, ma ne costituiscono in realtà una forma di concorrenza. I pub sono un cardine della vita sociale inglese da diversi secoli. Molte persone li frequentano per incontrare e interagire con amici e per fare nuove conoscenze, analogamente a quanto farebbero con Facebook. Le differenze sono però sostanziali: gli incontri sono reali, non virtuali, e l’azienda incassa denaro, non impression o like.

Le aziende che non gestiscono pub dovrebbero prendere coscienza di una questione più generale: i media sociali sono per gli esseri umani, non per le aziende e le loro marche.

La natura di queste piattaforme incoraggia i comuni mortali, tradizionali “riceventi” della comunicazione di massa, a diventare “produttori” ed “emittenti” di messaggi. E non dovrebbe essere sfuggito ai manager più attenti che fra i contenuti preferiti ritroviamo gattini, compleanni, vacanze, sfoghi poetici o proclami politici – non dentifrici, mozzarelle o lavastoviglie.

I media sociali hanno anche esteso esponenzialmente le opportunità di interazione per gli stessi comuni mortali; ma i più accorti avranno notato che i loro interlocutori preferiti sono i loro simili, oppure persone dello spettacolo, calciatori, giornalisti e politici – non aziende o marche. E gli stili prevalenti dei messaggi sono quelli delle confidenze o delle barzellette fra amici, delle chiacchiere al bar o dell’insulto ai potenti – non il politicamente corretto, né la disciplina dei focus group.

Questo punto è talmente evidente che anche gli operatori iniziano ad ammetterlo, pur se con esitazione, perché non hanno ovviamente interesse a scoraggiare i loro clienti. Ad esempio, gli esperti di Sprout Social, azienda di Chicago che offre strumenti per la gestione dei media sociali, nel loro ultimo rapporto esordiscono dichiarando: “Sono finiti i tempi dei social media come canale opzionale del marketing. Adesso i social hanno conquistato il loro posto di diritto a tavola…”.

Peccato che due paragrafi dopo debbano correggere il tiro: “Abbiamo scoperto che i social media sono ancora principalmente una piattaforma per persone. La gente vi passa il tempo soprattutto per interagire con familiari e amici. Quando le aziende formulano le loro campagne e messaggi di marca, devono tener conto che sono ospiti a cena, non membri del nucleo familiare…”. (9)

Vorrei sottolineare l’ingenuità di una tale “scoperta” fatta nell’Anno Domini 2018 e dell’espressione “sono ancora principalmente una piattaforma per persone”, come se il fenomeno fosse transitorio e destinato ad eclissarsi grazie all’irresistibile fascino delle marche di prodotti e servizi. Temo invece che per molte aziende il posto a tavola non sia disponibile e che, parafrasando gli anglosassoni, non esista nessuna cena gratis.

Pausa di riflessione
Queste considerazioni dovrebbero aiutare a liberarci dall’infatuazione per i social media e a tornare a lavorare seriamente sulle questioni fondamentali per difendere il business esistente e per acquisire nuovi clienti. Il fascino delle nuove tecnologie non dovrebbe distrarci dalle decisioni di strategia, da sani principi quali la neutralità nelle scelte dei media (media neutrality), piuttosto che dal senso critico necessario nella definizione degli stanziamenti di comunicazione e nella valutazione dei risultati.

Non vorrei escludere che le reti sociali siano utili come, ad esempio, medium pubblicitario (la classica inserzione a pagamento), canale per reclami o strumento per il reclutamento. Però i dati che emergono mettono in discussione il dogma della loro indispensabilità per ampliare la notorietà di marca o per stimolare la propensione all’acquisto.

Anche sulle opportunità di interazione con il pubblico, le imprese dovrebbero scoprire e analizzare le reali abitudini di utilizzo dei media sociali nei propri mercati di riferimento prima di imbarcarsi in missioni velleitarie, quali “rinforzare i valori di marca” o “creare una community” .

Per concludere, J D Wetherspoon mi informa che, tre mesi dopo la chiusura di tutti i loro canali sociali, non hanno registrato alcun effetto negativo sulla loro attività, mentre le vendite continuano a crescere. Cheers!

Twitter: @RobertoFedi

 

NOTE: 

(1) Hootsuite, We Are Social, 2018 Digital Yearbook; i dati si riferiscono al mese di gennaio 2018.

(2) Andrew Griffin, “Why did Wetherspoon really shut down its Facebook, Instagram and Twitter? The possible reasoning behind pubs’ bizarre decision”, The Independent, 16 aprile 2018.

(3) Rachel Thompson, “Wetherspoons is quitting social media, tells customers to talk to landlords for updates”, Mashable, 16 aprile 2018.

(4) Matthew Pink, “JD Wetherspoon closing its social account is just peeing in the wind”, Campaign, 17 aprile 2018.

(5) Geoff Percival, “Investors cheer as pub group JD Wetherspoon quits social media”, Irish Examiner, 17 aprile 2018.

(6) Mark Ritson, “Wetherspoon ditching social media is brand leadership at its best”, Marketing Week, 17 aprile 2018.

(7) Tony Parson, “Wetherspoon’s boss shows it’s closing time for the morons of social media”, The Sun, 22 aprile 2018.

(8) Leonie Roderick, “L’Oréal’s new CMO on why brands shouldn’t have a digital strategy”, Marketing Week, 13 novembre 2017.

(9) Sprout Social, Sprout Social Index 2018.