categoria: Res Publica
È ora di trattare la mafia come un’impresa a tutti gli effetti. Ecco perché
Ben vengano gli arresti e le condanne, le onorificenze e i cortei di piazza, le fiaccolate e le grida di scandalo, ma non si pensi che siano soluzioni! La criminalità organizzata resiste a tutto questo perché non è semplicemente un difetto della società civile; essa, diversamente, ne è parte attiva, come fosse un suo elemento, una sua componente antropologica ed economica. Già Falcone, non a caso, esortava spesso i propri interlocutori a prenderne in considerazione gli interessi economici quali punti nevralgici da colpire, evitando il giustizialismo spettacolare e, di fatto, improduttivo. A ventisei anni dalla sua morte, sembra proprio che le sue parole siano rimaste inascoltate e il suo metodo d’indagine inapplicato. La criminalità organizzata italiana fa registrare attualmente circa 150 miliardi di ricavi e, a fronte di poco più di 35 miliardi di costi, ha utili per oltre 100 miliardi: numeri, questi, che surclassano pure quelli dei colossi europei dell’energia.
La genesi della mafia avvenne in un contesto di totale assenza degli apparati statali, nella seconda metà del XIX secolo, cioè nel momento in cui i grandi proprietari terrieri assoldavano i campieri per difendere i propri fondi dai banditi. I contadini, a propria volta, incapaci di proteggersi si rivolgevano al cosiddetto feudatario, che garantiva loro sicurezza in cambio di prestazioni e prodotti. Chiusura, inevitabilità e incrollabilità portarono il latifondista al potere. Tuttavia, nell’atto di nascita, questo sistema non poteva essere considerato ‘illegale’. Non esisteva, infatti, un vero e proprio concetto di legalità rispetto al quale esso avrebbe potuto essere giudicato.
Angelino Epaminonda detto “Il Tebano”, esponente storico della mafia catanese a Milano
Quando, a un certo punto, s’è sentito il bisogno di ‘riformare’ questo modello socio-economico, non s’è fatto altro che tentare la pratica del contrasto irrazionale, dello schiacciamento o dello sradicamento, sebbene sradicare dall’ambiente qualcosa che non si distingue dall’ambiente stesso possa implicare due cose: o annientare l’ambiente stesso – il che è impossibile – oppure generare e rigenerare o semplicemente rafforzare ciò contro cui si combatte. Dunque, la prima considerazione doverosa è la seguente: il fenomeno malavitoso avrebbe dovuto e dovrebbe essere affrontato col piglio dell’antropologo, del sociologo, dello scienziato e, soprattutto, con quello dell’economista, anziché con quello del ‘poliziotto’. Si tratta di una legge scientifica inalienabile: coi sistemi si deve interagire, non si possono annientare.
Da un’indagine divulgata da Luigi Dell’Olio su La Repubblica, ma svolta qualche anno fa da Transcrime, il Centro di Ricerca sul Crimine dell’Università Cattolica di Milano, apprendiamo che l’85% delle aziende sequestrate e confiscate alla mafia fallisce nel biennio successivo al sequestro, sotto la guida dell’amministrazione giudiziaria. Ne consegue un danno irreparabile per l’occupazione e un supplizio indicibile per quei padri di famiglia che si trovano improvvisamente senza un’occupazione e senza una ragionevole speranza di trovarne una. Se è vero che le aziende controllate dalla mafia non seguono i naturali percorsi di competitività, ma si avvalgono di agevolazioni irregolari come l’evasione, il riciclaggio, il lavoro nero et cetera, è altrettanto vero che, in questi anni, non s’è documentata una capacità d’intervento concreta degli apparati dello Stato.
Uno degli ultimi e devastanti casi della Sicilia riguarda, per esempio, la vicenda del Gruppo 6 di Castelvetrano, società proprietaria di un centro commerciale, fallita in seguito all’arresto di Giuseppe Gricoli, cassiere del boss latitante Matteo Messina Denaro.
L’identikit più recente di Matteo Messina Denaro
Di là dalle controverse dinamiche giudiziarie, circa 300 lavoratori sono ormai disoccupati da anni, talmente disperati da rimpiangere apertamente l’amministrazione mafiosa, preferendola a quella dello Stato. Che cosa significa questo in una città di poco più di 30.000 abitanti? In pratica, l’1% della popolazione, in un territorio ad altissimo tasso di disoccupazione, se abbandonato, determina un’erosione spaventosa del reddito pro capite, un tale disastro che non si può pensare o pretendere che certi padri non facciano di tutto per sfamare i propri figli, per quanto certe affermazioni possano apparire paradossali e sconcertanti, sicuramente non per palati fini.
Che cosa è successo in un secolo e mezzo di ‘mafie’?
L’assenza dello Stato ne aveva favorito la nascita. La presenza dello Stato ne ha contrastato l’espansione. Una certa assenza di ritorno ne favorisce la rigenerazione. Qual è il modello economico alternativo proposto dagli amministratori giudiziari, sui quali non si può di certo scaricare tutta la colpa? Sempre mediante la fonte summenzionata, accertiamo, per esempio, che le banche mostrano a queste imprese irregolari una certa disponibilità di credito fino all’arrivo della magistratura; dopodiché, revocano ogni tipo di ‘affidamento’. Possiamo allora ipotizzare una complicità indiretta del sistema bancario? Difficile a dirsi, ma nessun intervento concreto s’è fatto in merito.
Qualche passo avanti, in direzione d’un’interpretazione sistemica, a dire il vero, è stato fatto. Dal 2014, gli introiti delle attività criminali sono calcolate all’interno del PIL, sulla base di una revisione dei conti degli stati membri voluta dall’Unione Europea. Ad alcuni lettori, questo metodo potrebbe risultare addirittura offensivo, mentre alcuni palati fini potrebbero storcere il naso per disgusto. Invece, è fondamentale capire che si tratta dell’unico vero e utile modello di contrasto del danno provocato dagli operatori oscuri e perversi dell’economia.
Secondo uno studio effettuato dall’Università di Reggio Calabria nel 2013, l’economia mafiosa è in grado di erodere addirittura il 15% del nostro PIL pro capite, un dato che non si può non definire allarmante. E, se fino a qualche tempo fa si poteva dire che il fenomeno apparteneva al Meridione, oggi grazie a questi ricercatori, sappiamo che la maggior parte dei ricavi della ‘Ndrangheta, per esempio, proviene dal Nord-Ovest. La Calabria, purtroppo, resta la regione più povera d’Italia e, di conseguenza, la più soggetta alla contraffazione economica, ma, nello stesso tempo, Lombardia, Piemonte e Lazio non ne sono di certo prive. Nella speciale e terribile classifica dei ricavi, trionfa la Camorra, seguita per l’appunto dalla ‘Ndrangheta. Al terzo posto troviamo Cosa nostra. I ‘prodotti’ di punta sono la droga, lo sfruttamento della prostituzione e le estorsioni, che, insieme, fanno ‘incassare’ ai criminali quasi 20 miliardi l’anno, ma non mancano dal bilancio naturalmente il contrabbando di sigarette, l’usura e il traffico di rifiuti.
È arrivato il momento di trattare la mafia come un’impresa a tutti gli effetti, tentando di redigerne un vero e proprio bilancio con le relative voci di attività e passività. Si tratterebbe del migliore tra i punti di partenza per una revisione dei modelli d’approccio al problema che conduca il Legislatore a una soluzione. Chi se ne scandalizza non fa altro che negare l’evidenza. Indubbiamente, suscita una certa inquietudine leggere di espressioni della vita d’impresa destinate alla criminalità organizzata, quali immobilizzazioni, attivo circolante, utile d’esercizio, ricavi, costi et cetera, ma è un atto necessario e coerente.
Quando leggiamo la risultanza del report ISTAT 2012-2015 sull’economia non osservata nei conti nazionali, ci rendiamo conto d’altronde che economia sommersa ed economia illegale corrispondono al 12,6% del PIL e determinano un valore aggiunto di 208 miliardi di euro. È bene tuttavia riflettere su un aspetto singolare della composizione di questo dato, qualcosa che il cittadino in genere non s’aspetta: parlando di economia non osservata, cioè di economia sottratta ai controlli dell’autorità fiscale, che, come abbiamo già scritto è data dalla somma di economia sommersa e attività illegali, queste ultime incidono solo per 1,2%, mentre la quota restante appartiene al lavoro irregolare e alle sottodichiarazioni. Ne consegue che l’area grigia italiana è talmente estesa che tracciare un confine netto tra irregolarità e illegalità, oggi, non è più così semplice. Ci vogliono nuovi modelli economici.
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