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Chi paga in Europa il conto dei dazi di Trump (l’Italia non si salva)
La decisione dell’amministrazione Trump di concedere, dopo la scadenza del primo maggio, altri 30 giorni di esenzione all’Ue dai dazi su acciaio e alluminio lascia in vita la possibilità che alla fine la tanto temuta guerra commerciale fra gli europei e gli americani, ossia gli artefici della crescita economica degli ultimi settant’anni, non ci sarà. Ma si tratta di una speranza, e peraltro tenue, come ci ricorda un’analisi recente proposta da S&P, che esordisce ricordando una dichiarazione del presidente Usa secondo la quale il suo paese avrebbe “perduto 151 miliardi” nei confronti dell’Europa a causa del deficit commerciale.
Nella sua dichiarazione Trump lamentava che per gli europei fosse facile vendere negli Usa le loro Mercedes e Bmw, mentre gli Usa non avevano la stessa facilità a vendere i loro prodotti. Ma se si guarda al commercio come a una gara, dove vince chi esporta di più, allora la dichiarazione di Trump è già nei fatti una dichiarazione di guerra. E in tal senso i 30 giorni di proroga di esenzione dai dazi per gli europei somiglia più alla classica quiete prima delle tempesta che rischia di provocare un costo altissimo per le imprese continentali, che traggono una parte considerevole dei loro utili dalla domanda Usa. Ma ciò non vuol dire che il danno non si trasmetterà anche agli Usa. L’Ue ha già stilato due elenchi di beni che saranno soggetti a tariffe, uno per circa 2,8 miliardi e un altro per altri 3,6 miliardi, che scatterà trascorsi tre anni dalla bocciatura dei dazi Usa da parte del Wto se gli Usa non torneranno indietro sulla loro decisione.
La disputa commerciale fra Stati Uniti e Ue si spiega con la circostanza che se è vero che il deficit commerciale di 823 miliardi che gli Usa hanno cumulato nei dodici mesi terminati a febbraio 2018 dipende in buona parte dallo squilibrio con la Cina, è vero altresì che l’Ue è il secondo “paese” per attivi con oltre 150 miliardi.
Come si vede buona parte di questa eccedenza la produce la Germania (66 miliardi), ma anche l’Italia ha visto crescere la sua quota (33 miliardi) e persino la Franca (15 miliardi) mentre l’UK è deficitaria nei confronti degli Usa per circa 4 miliardi.
Il dato aggregato può essere utile per avere una visione d’insieme, ma si capisce poco delle relazioni commerciali fra Ue e Usa se non si guarda a come queste eccedenze si distribuiscano nei vari settori industriali.
Come si può osservare, il grosso delle eccedenze sta nel settore degli autoveicoli, ma anche il settore farmaceutico è rilevante, così come i macchinari, compresi quelli specialistici, e alcune categorie di alimenti, che sommati pesano quasi 100 miliardi delle eccedenze Ue verso gli Usa. Se guardiamo i due grafici insieme, ossia associando i paesi e i settori, la visione d’insieme che ci si offre è ancora più chiara.
In sostanza, la Germania domina il commercio estero dell’Ue, insomma, ma noi italiani siamo i secondi. Il fatto che Trump abbia parlato solo delle Bmw e delle Mercedes non dovrebbe rassicurarci troppo.
Per capire (parzialmente) le ragioni di Trump si può ricordare, con S&P, che “le auto statunitensi importate nell’UE sono soggette a tariffe del 10% contro il 2,5% nell’altra direzione”. Ma è altresì vero che “le importazioni di camion e pick-up negli Stati Uniti sono soggette a tariffe del 25%”. Rimane il fatto, evidente a tutti ma forse non troppo chiaro a chi deve decidere, che “una guerra commerciale conclamata tra l’UE e gli Stati Uniti sarebbe estremamente costosa per entrambe le parti”. Quanto all’Europa, S&P stima che le vendite che coinvolgono gli Usa rappresentano il 23% degli incassi totali delle imprese non finanziarie europee con investment grade. Anche le imprese di grado speculativo traggono dagli Usa il 14% delle loro entrate.
Rimane poi il dubbio che anche daziando le auto europee Trump raggiunga l’obiettivo che si propone, ossia riequilibrare i sui conti commerciali con l’Ue. Ci sono questioni tecniche che rendono estremamente complesso agire sulle eccedenze utilizzando i dazi. E proprio il settore automobilistico è l’esempio migliore. “Un numero elevato di veicoli di società europee – spiega S&P – è stato effettivamente realizzato negli Stati Uniti. Le aziende tedesche hanno prodotto 804.000 automobili negli Usa nel 2017, a fronte di 494.000 automobili esportate dalla Germania verso gli Stati Uniti. Inoltre, di questa produzione basata negli Stati Uniti, oltre la metà viene a sua volta esportata – circa 430.000 unità l’anno scorso. Ciò significa che le auto prodotte dagli Stati Uniti con marca tedesca potrebbero finire nel fuoco incrociato delle imposizioni tariffarie e che dipendenti e fornitori statunitensi potrebbero subirne conseguenze negative”. Paradossalmente la Bmw, una delle marche citate da Trump nella sua invettiva contro i produttori automobilistici, ha una capacità di produzione significativa negli Usa, al contrario di Audi, Porsche, Jaguar e Land Rover. Inoltre è assai più complesso, da un punto di vista legale, trovare lo strumento adatto a daziare l’import di auto senza incorrere nel rischio di finire davanti al Wto.
Insomma, fare una dichiarazione per accattivarsi le simpatie degli elettori è senza dubbio più facile che far seguire dei fatti coerenti. Il rinvio di trenta giorni dell’applicazione dei dazi all’Ue è il segnale delle profonde difficoltà nelle quali si agita l’amministrazione Usa, evidentemente consapevole che l’Ue, dove il commercio tedesco interpreta un ruolo da leader, non si lascerà daziare senza reagire. E decidere qualcosa quando si è in difficoltà è il modo più semplice per fare scelte sbagliate.
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