Non condannate il Sud (e l’Italia) all’irrilevanza industriale

scritto da il 13 Aprile 2018

Esaurita la coda delle polemiche relative alle analisi elettorali post-voto, si può tornare a ragionare sul momento attuale che vive l’economia italiana e sugli scenari futuri. Si è discusso molto di Sud, perché giocoforza qualcuno intuisce che le disparità regionali potrebbero influenzare il dibattito politico dei prossimi anni, tra difficili trattative Stato-Regioni per l’attuazione di nuove forme di autonomia locale e del regionalismo differenziato (ne abbiamo già scritto e lo rifaremo a tempo debito) e promesse della campagna elettorale con cui fare i conti.

Nel recente “Rapporto sulle economie territoriali”, scrive Confcommercio: «(…) In altre parole, in modo approssimativo, si potrebbe sostenere che l’Italia ha una serie di problemi che possono essere assemblati in un’unica metrica, quella territoriale: il problema “Italia” è in larga misura l’arretramento strutturale del Mezzogiorno, un’area che, come detto, vale (ancora) oltre un terzo della popolazione e quasi un quarto del prodotto lordo».

Come già dice il passaggio citato, si tratta di un’approssimazione, ma di certo non trascurabile. La parte più complicata, ça va sans dire, riguarda il “cosa fare”, in quanto il rischio di fallimento per qualsiasi policy che si volesse implementare per ridurre il gap è molto elevato. Ma prima ancora di provare a ragionare su misure concrete da adottare, è venuto il momento di chiedersi che futuro immaginiamo per il Mezzogiorno. Scrivendo spesso sul tema (la lingua batte sempre dove il dente duole), mi rendo conto che sia oramai passata l’idea secondo la quale il Sud dovrebbe puntare – quasi esclusivamente per taluni – sul turismo come “volano dell’economia”. Quante volte sentiamo e vediamo politici di spicco andare nelle Regioni meridionali, fare una foto ad un panorama mozzafiato, e poi affermare “Potreste vivere solo di questo”? Spesso ciò viene detto anche da esponenti e leader di primo ordine dei partiti usciti vincitori dall’ultima tornata elettorale, bravi ad intercettare questo sentimento comune diffuso. Ma è quindi questo il futuro che immaginiamo per il Mezzogiorno o persino per l’Italia? Un futuro di lavori spesso stagionali e malpagati? 

Pochi giorni fa è arrivata la notizia di un accordo da 50 milioni di euro firmato da Hitachi Rail Italy e Metroselskabet per la fornitura di otto treni senza conducente per la metropolitana di Copenaghen. Si tratta di una commessa figlia di un rapporto nato tanti anni fa, quando esisteva Ansaldo Breda, poi ceduta da Finmeccanica ai giapponesi insieme al 40% di Ansaldo Sts (sulla cessione c’è ancora un’indagine in corso da parte della magistratura). I treni verranno realizzati negli stabilimenti italiani di Pistoia, Napoli e Reggio Calabria. Sempre da Reggio Calabria è partito il primo treno per la metropolitana di Lima, Perù. Il colosso Hitachi è presente in quattordici Regioni italiane. Quel che più conta in questa sede è che il 43% dei suoi occupati italiani lavora al Sud. Una manna dal cielo, di questi tempi.

Adesso tutti parlano – giustamente – di orgoglio e soddisfazione per le commesse internazionali, testimonianza di una voglia di industria che non dovrebbe essere prerogativa di una sola parte del Paese, di nuove tecnologie, di competizione globale da sfidare. Tuttavia, il Sud (ma non solo) resta un territorio scettico nei confronti delle acquisizioni e degli investimenti compiuti da multinazionali – spesso per ragioni ideologiche – nonché incapace di occuparsi seriamente dei motivi che spingono una grande azienda, italiana o straniera, ad abbandonare un territorio o a decidere già a priori di non investire in un dato contesto. Troppo spesso la discussione si arena su tasse e costo del lavoro, che sono sicuramente elementi in grado di influenzare pesantemente le scelte di un management, ma non sono gli unici, soprattutto se si parla di Sud. Come si può puntare ad uno sviluppo economico-industriale se su un totale di 263 regioni europee, classificate secondo l’Indice di competitività regionale 2016, la Sicilia occupa il 237° posto, la Calabria il 235°, la Puglia il 233°, Sardegna e Campania il 228° etc.? Come si può invertire la rotta fino a che un manager vedrà un grafico come il seguente?

cattura

Come fai a convincerlo? Quanto dovrebbero scendere i salari per compensarlo della scelta di investire o di restare al Sud? O di che riduzione del costo del lavoro o delle tasse avrebbe bisogno? O di quanti sussidi pubblici? Nella prima Repubblica conoscevano queste difficoltà di contesto e scelsero, consapevolmente, la strada dell’intervento pubblico straordinario, attraverso l’impegno diretto di aziende pubbliche o di forti sovvenzionamenti alle private. Una scelta che produsse importanti risultati di convergenza per un certo periodo ma che – inesorabilmente – finì come non avrebbe potuto altrimenti: allentati prima e chiusi poi i rubinetti a causa degli sprechi divenuti ingestibili, sono rimaste le “cattedrali nel deserto” di Montanelliana memoria. Perché se non affronti i mali atavici come la presenza della criminalità organizzata, la PA inefficiente, la giustizia lumaca, l’accessibilità inadeguata, alcuni ritardi decisivi in termini di istruzione etc., non ci può essere un finale alternativo.

Adesso però la rassegnazione (o la mancanza di visione politica) è tale che si diffonde a macchia d’olio il mito del voler vivere di turismo che, intendiamoci, ha ampissimi margini di crescita senza alcun dubbio, sia quantitativi sia qualitativi. Ma che prospettive si vogliono dare, ad esempio, ai quasi 18 mila laureati calabresi in discipline STEM (SCIENCE, TECHNOLOGY, ENGINEERING, MATHEMATICS) che, a parole, tutti sperano di poter vedere aumentare? Secondo gli ultimi dati diffusi dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo, nonostante ci sia qualche buona indicazione sulle imprese giovanili meridionali, su 153 distretti industriali analizzati solo 27 si trovano nel Mezzogiorno (nessuno in Calabria e Molise, 8 in Campania, 9 in Puglia -di cui 1 condiviso con la Basilicata-, 3 in Sicilia,  5 in Abruzzo e 2 in Sardegna). Con questi numeri, come si può interrompere l’esodo delle competenze? Ma questo non sembra preoccupare chi crede che il meridione non abbia bisogno di tutto questo, perché esso vivrà di turismo e di produzioni locali da vendere ai turisti.

L’Italia ha una grande storia industriale ed ha saputo compiere in poco più di 150 anni alcuni passi da gigante, spesso inaspettati, talvolta etichettati come veri miracoli economici. Se decide di intraprendere un futuro in cui si specchia nella sua straordinaria bellezza, illudendosi di poter mantenere il proprio livello di ricchezza sfruttando meramente la rendita di posizione ereditata dalla storia e dalla benevolenza di madre natura, si sbaglia. Ciò vale soprattutto per il Mezzogiorno, maggiormente tentato da questa strada anche a causa dei cattivi consiglieri che ne farebbero solo una meta di vacanza, ma anche per il resto del Paese.

Twitter @frabruno88