categoria: Vendere e comprare
La finanza applicata al calcio genera mostri?
Nel corso di quasi venti anni di carriera, molti dei quali spesi nel settore della consulenza e dei servizi professionali, molto spesso mi sono trovato ad assistere imprenditori in scelte di investimento e/o nella redazione di piani finanziari ad essi connessi. Alla domanda: “Dottore, mi consiglia di investire in un club professionistico di calcio?” ho sempre risposto “No, per carità, stia lontano!”.
Effettivamente la mia era una risposta affrettata, anche se molto convinta; era probabilmente più un pregiudizio che un consiglio ponderato. Alla base vi stava il fatto che ho sempre ritenuto che la finanza applicata al calcio generasse una sorta di “mostro”: quando si investono i propri soldi in attività imprenditoriali è sempre necessario comprendere i rischi, ponderarli, valutare i rapporti costi/benefici e costi/opportunità; è importante, in questo ambito, semplificare e ridurre ai minimi termini il quadro decisionale, togliendo più variabili possibile, riducendo i margini di incertezza; ho sempre pensato che questo fosse poco compatibile con il business del calcio – ma lo sarebbe per qualsiasi sport, troppo basato su variabili non sotto controllo. Un giocatore fuori forma, gli infortuni, una serie di episodi poco fortunati, una “piazza” sportiva ostile, sviste arbitrali, una attenzione mediatica spesso ossessiva….tutti elementi che possono incidere pesantemente sul proprio investimento e che non sono misurabili in termini di impatto sul rischio.
Negli ultimi anni, tuttavia, devo riconoscere che anche il calcio italiano ha sta assumendo sempre più le caratteristiche di una “industry”, cioè di un settore industriale fatto di aziende che devono stare sul mercato con piani sostenibili, finanziabili ed aventi una propria fisionomia ben precisa.
Alcune società sono approdate al mercato borsistico (al momento sono tre: la Juventus e le due romane, Lazio e Roma); altre sono state oggetto di acquisizioni da parte di investitori esteri: la stessa Roma, il Bologna, l’Inter, il Milan; accanto a “rovesci” clamorosi (solo in Emilia sono fallite recentemente sia il Modena che il Parma) ci sono anche aziende bene gestite e redditizie.
Ma quali sono i principali driver di una gestione del club sportivo dal punto di visto economico e finanziario? Iniziamo dal lato dei ricavi: anche in Italia le linee di ricavo tipiche delle società calcistiche si sono andate delineando con precisione:
1. i diritti televisivi, che affluiscono ai club dalle emittenti o dai canali internet che sono interessati a trasmettere i contenuti sportivi, per il tramite di trattative effettuate da associazioni nazionali (per Campionato e Coppa Italia) o Internazionali (per le Coppe europee);
2. i ricavi da stadio, cioè gli abbonamenti e tutto il business legato al cosiddetto “match day”; per le squadre che si sono dotate di un impianto di proprietà (Juve, Udinese, Sassuolo, Benevento, Atalanta). Questi ricavi possono dilatarsi a comprendere altre iniziative (musei, visite allo stadio, eventi) e rappresentano un investimento che molti Club sono vieppiù portati a valutare;
3. il merchandising e il licensing del marchio: quindi vendita di maglie, accessori e gadget, ma anche la creazione di oggetti con marchio della squadra; esemplare il caso della Juventus, che ha modificato il proprio marchio – probabilmente – soprattutto sulla spinta della necessità di renderlo “appealing” per tutta una serie di utilizzi legati a questo mondo (accessori a marchio Juve, abbigliamento, oggettistica);
4. le sponsorizzazioni: da quelle tecniche (per il materiale sportivo) a quelle sulle maglie, dove come è noto si sono moltiplicati gli spazi a disposizione delle squadre per esporre marchi di terze aziende (o, come nel caso della Juventus e, in passato, dell’Inter, di marchi di società dello stesso gruppo di appartenenza);
5. la gestione del parco giocatori, intesa come vera e propria attività di scouting e di investimento: cerco giovani calciatori, li faccio crescere e poi possono essere utilizzati nelle squadre sociali o essere venduti ad un’altra squadra; oppure scovo opportunità sul mercato, scommettendo su un incremento di valore (classico il caso di Paul Pogba, acquistato a zero dalla Juve dal Manchester United e rivenduto allo stesso club inglese per 105 milioni).
A titolo esemplificativo, si veda lo spaccato dei ricavi dei due ultimi esercizi della Juventus (Fonte: Relazione Finanziaria Annuale Juventus FC SpA al 30/6/2017), il club calcistico con il più alto fatturato fra le italiane:
Dal punto di vista dei costi, naturalmente, il costo più importante è quello rappresentato dal parco giocatori; sul quale entreremo nel merito a breve. Se infatti volessimo creare un parallelo con un’azienda manifatturiera, dovremmo ricordare che gli investimenti fissi di questa sono gli stabilimenti, i macchinari, le attrezzature; nelle squadre di calcio, l”apparato produttivo”, quello che ti consente di farei i tuoi ricavi, di vendere il tuo prodotto, è fatto di varie cose, ma quella fondamentale è una: i calciatori. Da questo punto di vista, mi aveva incuriosito questo tweet di Nonleggerlo:
Esso mostra come sarebbe variato, a circa metà della corrente stagione sportiva, il valore dei giocatori di due squadre, la Lazio e il Milan, a seguito dei risultati ottenuti sul campo: i giocatori della Lazio hanno moltiplicato per 8 il proprio valore, mentre quelli del Milan hanno subito un calo importante di circa il 15% in pochi mesi (le valutazioni sono di SkySport e non è questa la sede per capire i criteri con cui sono costruite).
Mi sono subito fatto alcune domande, ho cercato di stabilire qualche parallelo con aziende produttive “normali”: come è possibile che il mio “apparato produttivo” cambi il suo valore in modo drastico in pochi mesi, sulla base di variabili in gran parte “emozionali”, fuori controllo (ad esempio il classico caso di Luiz Alberto, giocatore spagnolo della Lazio: vicino al ritiro, di nessun valore, ora invece vale varie decine di milioni di euro, a leggere le cronache). E come è possibile che il giocatore XY possa valere 20 milioni se inserito in un certo “processo produttivo” (la squadra A) e magari 3 volte tanto, o la metà, se inserito in un altro “stabilimento” (la squadra B)?
Un altro parallelo che ho sempre considerato complicato, tanto da spingermi a dare il consiglio con cui ho aperto questo pezzo è quello rispetto al management del club sportivo: la figura centrale è quella dell’allenatore, è su di lui che si concentra l’attenzione ed è lui che il più delle volte viene sostituito se non arrivano i risultati. Ho notato che questa decisione non è quasi mai dettata da processi razionali, ma, anche questi, totalmente emozionali, spesso guidati dalla “piazza” o anche “dallo spogliatoio” (fra l’altro, il cambio di allenatore è sempre un aggravio di costi, perché egli va retribuito fino alla scadenza del suo contratto – ovviamente in aggiunta al nuovo tecnico).
Ecco che di nuovo la mia fiducia nella capacità degli strumenti di misurazione di tipo aziendalistico e finanziario di applicarsi al calcio è tornata a scemare… Ma torniamo alla nostra impresa calcistica: abbiamo quindi capito che il parco giocatori rappresenta l’asset produttivo per eccellenza; ed infatti, se prendiamo il bilancio di una società calcistica, troviamo i giocatori iscritti fra le immobilizzazioni immateriali (come diritto allo sfruttamento delle loro prestazioni sportive): essi vengono acquistati ad un certo prezzo ed ammortizzati su un numero di anni pari al loro contratto; quindi la componente di conto economico di un dato esercizio del parco giocatori di una squadra è duplice: l’ammortamento del costo di acquisto e l’ingaggio.
Anche su queste dinamiche, la finanziarizzazione è venuta in soccorso (sempre che la finanza possa soccorrere qualcosa, di per sé… ma questo è un altro discorso) introducendo spesso forme innovative di acquisizione dei diritti sportivi dei giocatori: un caso è stato quello di Juan Cuadrado, acquisito definitivamente dalla Juve (il Chelsea era la squadra che lo deteneva) con un formula in tutto e per tutto simile ad un “leasing”: una sorta di pagamento rateale con un riscatto finale.
Sullo stesso filone, su tutta una serie di ricavi delle società calcistiche, si sono montate operazioni finanziaria tipiche di altre società industriali e qui il parallelo più calzante è a mio parere quello con le società del lusso, che spesso procedono a politiche di licensing del loro marchio e poi, molto spesso, sono solite cartolarizzare i flussi futuri monetizzando finanziariamente questi ricavi che hanno la caratteristica di proiettare nel tempo un flusso di ricavi, appunto, da concessione di licenze di sfruttamento in classi di marchio non gestite direttamente.
Ci sono quindi vari livelli in cui anche le società calcistiche italiane, a partire ovviamente dalle 4-5 maggiori, potranno applicare criteri di maggiore “standardizzazione” dei loro piani economico-finanziari, avvicinandosi alle dinamiche delle altre aziende produttive. Pur all’interno di molte contraddizioni (il ranking UEFA delle squadre italiane è in lenta ripresa, mentre purtroppo si deve registrare la clamorosa eliminazione dai prossimi Mondiali di Russia), quindi, il mio parere è che anche l’industria calcistica italiana stia progredendo verso una complessiva modernizzazione. Con il prossimo imprenditore che mi chiederà un consiglio, forse, sarò più possibilista!
Twitter @dorinileonardo