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Incentivi alla ricerca e imprese: quando piccolo è (ancora) bello
L’autore di questo post, secondo di una serie a cura di Neos Magazine, è Alessio Mitra, Master student in Applied Economics alla University of Bath (UK); ha studiato Economia e Commercio (BSc) all’Università di Torino ed ha approfondito gli studi economici presso University of Geneva e University of Copenhagen; collabora con IPR (Institute for Policy Research of the University of Bath) –
Politica valutata: Programma di sussidi alle imprese per progetti di ricerca e sviluppo implementato in Emilia-Romagna.
Obiettivo: Incremento degli investimenti in ricerca e sviluppo delle imprese che aderiscono al programma.
Effetto: Per le imprese di dimensioni minori, aumento degli investimenti pari al sussidio ricevuto. Nessun effetto per le imprese di maggiori dimensioni. Complessivamente: aumento degli investimenti non statisticamente significativo.
Secondo la letteratura economica, vi sono molte ragioni per le quali lo stato dovrebbe incentivare le imprese, mediante sussidi o riduzioni fiscali, ad investire in ricerca e sviluppo. Uno dei principali è l’esistenza di un fallimento di mercato. In linguaggio economico, si definisce fallimento di mercato la situazione in cui l’autonomo operare del libero mercato non conduce ad un risultato ottimale.
Questo è esattamente ciò che accade nel caso degli investimenti di privati in ricerca e sviluppo. La creazione di conoscenza da parte delle imprese genera infatti esternalità positive sulla società per le quali le imprese non sono ripagate. In altre parole, il ritorno sociale dell’investimento è maggiore del ritorno che ne deriva al privato, causando un sotto investimento in ricerca da parte delle imprese rispetto a quello ottimale per la società.
Al fine di evitare un sub-ottimale livello di investimenti, si può quindi giustificare l’intervento statale affinché destini sussidi alla ricerca.
L’applicazione di tale principio teorico risulta però, nella pratica, ben più complesso di quanto sperato. Infatti, affinché il sussidio pubblico possa svolgere il suo compito, questo deve essere assegnato ad investimenti di ricerca che in assenza del sussidio stesso non avrebbero avuto luogo. In altre parole, il sussidio deve incidere solo su quella fetta di investimenti non profittevoli a causa del fallimento di mercato sopra citato. Se invece l’incentivo finisce per finanziare un investimento che sarebbe avvenuto anche in sua assenza, non otteniamo alcun incremento degli investimenti in ricerca, ma solo contestabile assegnazione di denaro pubblico.
Risulta quindi fondamentale verificare l’efficacia di una così importante politica pubblica mediante una metodologia scientifica. Non è infatti sufficiente osservare i dati e compararli, una grande quantità di diversi elementi possono influire ed ingannare il lettore. Al fine di evitare ciò, i ricercatori fanno utilizzo di sofisticati strumenti matematico-statistici in grado di isolare i vari elementi e comprendere il reale impatto delle politiche.
Questo è proprio ciò che il Raffaello Bronzini ed Eleonora Iachini fanno nel loro paper “Are Incentives for R&D Effective? Evidence from a Regression Discontinuity Approach”, pubblicato per l’American Economic Journal, uno dei più rinomati giornali accademici al mondo.
I due economisti della Banca D’Italia analizzano il programma del 2003 svoltosi in Emilia-Romagna a seguito dell’articolo 4 della legge regionale 7/2002. Il programma consisteva in dei sussidi pubblici da destinarsi a progetti di ricerca e sviluppo per le imprese del territorio. Il sussidio massimo ammissibile per ogni impresa era di 250.000€ ed esso veniva assegnato sulla base della valutazione da parte di un ente di esperti indipendenti, il quale valutava la validità dei progetti presentati.
Nel complesso, nei processi di selezione, il programma ha coinvolto 1.246 imprese; tra queste, quelle ritenute ammissibili di finanziamento, hanno ricevuto in media 182.000 euro per un totale di 98 milioni di spesa. Qual è stato l’effetto sugli investimenti in ricerca?
Utilizzando un disegno con regressione discontinua per comparare la spesa per investimenti in ricerca delle imprese che hanno ottenuto il sussidio e quelle che non lo hanno avuto, Bronzini e Iacchini mostrano che la politica non ha generato alcun aumento significativo degli investimenti. Soltanto suddividendo tra imprese di minori e maggiori dimensioni osservano un aumento degli investimenti ad opera di quelle più piccole. (Per imprese di dimensioni minori, si intendono tutte quelle con dimensioni inferiori rispetto alla mediana delle imprese in gioco).
La politica di incentivi ha quindi aumentato gli investimenti in ricerca solo nelle imprese di dimensioni inferiori. Perché?
La causa è probabilmente da andare a trovarsi nella diversa difficoltà con le quali le due tipo di imprese possono accedere a finanziamento esterno: il mercato dei capitali. Le imprese più grandi possono accedere a nuovi capitali a costi inferiori, ed è pertanto più probabile che effettuino ugualmente investimenti in ricerca e sviluppo anche in assenza dei sussidi (che tuttavia hanno ricevuto). Per le imprese più piccole vale invece il discorso opposto.
La diversa efficacia dei sussidi alla ricerca per imprese di piccole e grandi dimensioni risulta di elevata, quanto problematica, importanza per il dibattito pubblico. Alla luce di ciò, in caso di futuri programmi nazionali, l’opzione di focalizzare le limitate risorse disponibili alle sole imprese di dimensioni minori potrebbe essere auspicabile. Bisogna tuttavia sottolineare che ciò potrebbe costituire un incentivo per le imprese a non crescere oltre un certo livello. Tali tipi di distorsioni non possono essere escluse e devono essere tenute in considerazione.
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