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L’effetto positivo del Jobs Act (finora): 5 per cento dei nuovi posti fissi
Autrice di questo post, primo di una serie a cura di Neos Magazine, è Ornella Darova, Research Assistant al CHILD – Collegio Carlo Alberto e master student in Economic and Social Sciences all’Università Bocconi; ha studiato Economia e Statistica (B.A. Hons) all’Università di Torino e al Collegio Carlo Alberto; ha collaborato con Stockholm University, LUISS Laps e Istituto Bruno Leoni –
Politica valutata: Riduzione dei costi di licenziamento e incentivi per i contratti a tempo indeterminato nel Jobs Act.
Obiettivo: Creazione di lavoro, in particolare a tempo indeterminato, e riduzione del dualismo nel mercato del lavoro italiano.
Effetto: Positivo. Raddoppiamento del tasso di conversione da determinato a indeterminato, aumento delle nuove assunzioni con contratto permanente.
Tra il 2008 e il 2014 l’Italia ha perso, per effetto della crisi, 1 milione di posti di lavoro. In un mercato del lavoro duale come quello italiano con, da una parte, lavoratori tutelati e a tempo indeterminato, e dall’altra giovani (e non) a tempo determinato, potete facilmente indovinare quale sia stata, delle due, la categoria a soffrirne maggiormente le conseguenze.
La maggiore flessibilità dei contratti introdotta negli anni ’90, infatti, non è stata accompagnata da riforme adeguate alle procedure e ai costi di licenziamento per i contratti permanenti, ponendo di fatto in netto svantaggio la posizione dei cosiddetti precari. I governi D’Alema prima e Berlusconi poi avevano tentato di rimediare a questa disparità, ma in particolare l’ultimo era stato bloccato dall’opposizione della CGIL. Soltanto la Legge Fornero del 2012 e il Jobs Act del 2015, sono riusciti nell’intento di diminuire i costi di licenziamento e di renderli più chiari e trasparenti.
L’obiettivo del Jobs Act era dunque quello di ammorbidire la segmentazione del mercato del lavoro italiano e di promuovere le assunzioni a tempo indeterminato. Ma ci è davvero riuscito?
Per rispondere a questa domanda, non si può semplicemente analizzare una differenza tra il pre e il post riforma. Nel frattempo, altri fattori possono aver giocato un ruolo importante, e possono dunque portarci erroneamente a sottostimare o sovrastimare il successo di questa politica. Diffidate, in generale, di chi utilizza la mera differenza tra prima e dopo una riforma come misura del suo impatto: non è per nulla serio.
Per capire davvero se una politica ha funzionato, bisogna fare una valutazione d’impatto scientifica, proprio come Paolo Sestito e Eliana Viviano di Bankitalia, nel loro paper “Hiring incentives and/or firing cost reduction? Evaluating the impact of the 2015 policies on the Italian labour market” (Incentivi ad assumere e/o riduzione dei costi di licenziamento? Valutazione d’impatto delle politiche del 2015 sul mercato del lavoro italiano).
In particolare, molti sostengono che ad aumentare il numero di contratti a tempo indeterminato in seguito alla riforma siano stati semplicemente gli incentivi per questo tipo di contratti, non la riforma del licenziamento. I due ricercatori, Sestito e Viviano, sono in grado di distinguere gli effetti delle due politiche grazie al diverso periodo di implementazione (una è partita a gennaio del 2015, l’altro a marzo dello stesso anno), e alle differenze nella loro applicabilità (i sussidi andavano soltanto alle imprese con lavoratori precari nel semestre precedente, la riforma del licenziamento solo per le imprese con più di 15 dipendenti).
Ebbene, secondo i ricercatori, le due misure hanno contribuito, in misura uguale, a raddoppiare il tasso mensile di conversione dei posti da lavoro da precari a fissi. Per quanto riguarda, invece, le nuove assunzioni con contratti permanenti del 2015, il 45% di queste può essere attribuito alle due politiche.
Tuttavia, il 40% è merito degli incentivi, mentre soltanto il 5% si deve alla nuova regolamentazione nei licenziamenti. In altre parole: solo una piccola parte è strutturale. La nuova normativa per la cessazione del rapporto di lavoro ha permesso alle aziende di essere meno riluttanti nell’offrire posti fissi di lavoro direttamente, e non in conversione a precedenti contratti a tempo determinato. Inoltre, la riforma ha spinto anche le assunzioni a tempo determinato, che le imprese hanno scelto per testare il lavoratore, in previsione della possibilità di convertire a tempo indeterminato e godere dei sussidi previsti.
A qualcuno potrà sembrare controintuitivo, che facilitare i licenziamenti stimoli le assunzioni. Eppure la creazione di lavoro è stata reale e ha convertito la composizione degli occupati verso i contratti permanenti a discapito di quelli precari. Da sottolineare, in ogni caso, il fatto che stiamo parlando di un contributo di appena il 5% sulle nuove assunzioni. L’aspetto che questa valutazione non può ancora catturare, invece, è l’effetto a lungo termine della riduzione dei costi di licenziamento, che – grazie agli aggiustamenti delle strategie delle imprese – potrebbe essere maggiore rispetto a quello che si riscontrava a breve termine nel 2015.
Twitter @OrnellaDarova