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Trump, il dollaro e gli affari degli Stati Uniti: perché non tutto è come sembra
Alcune circostanze rendono curioso il dibattito che si è sviluppato ai piani alti dell’economia e della politica internazionale, culminato nei timori di una nuova guerra valutaria che in qualche modo l’amministrazione Trump rischia di alimentare, se non addirittura provocare, con le politiche di indebolimento del dollaro associate alle restrizioni commerciali. A Davos sono risuonate le parole preoccupate dei banchieri centrali europei e Trump ha ribadito che la sua politica metterà al primo posto l’America, anche se temperando tale volontà col desiderio di collaborare con gli altri partner. Questo scenario, tuttavia, trascura alcuni fatti che sembrano contraddire la vulgata che collega l’indebolimento del dollaro al miglioramento del commercio Usa, al punto da rendere conveniente anche un confitto valutario. Potrebbe essere vero il contrario.
Il primo elemento lo ha fornito il Fmi, che ha presentato il suo World economic outlook proprio a Davos nei giorni scorsi dal quale si osserva che nel 2017 il commercio internazionale è stimato sia cresciuto del 4,7%, più della crescita globale e le proiezioni sono superiori al 4% anche per quest’anno e il prossimo, pure se con ampi caveat relativi ai rischi collegati proprio all’aumento delle barriere commerciali. Il secondo elemento l’ho ricavato dal Sole 24 ore che ha pubblicato questo grafico molto istruttivo sulla svalutazione del dollaro dal momento dell’insediamento di Trump, quindi dalla fine del 2016.
Chiunque segua le cronache ricorderà sicuramente i continui moniti che l’amministrazione Trump ha rivolto al mondo, e ribaditi anche nell’ultimo intervento a Davos del presidente, sulla volontà americana di avere un commercio equo con i partner, evidentemente reputati non abbastanza onesti nella competizione. Aspirazione legittima che sussume un atteggiamento poco rassicurante, se la si associa alla svalutazione sofferta del dollaro nell’ultimo anno e alle ultime cronache sui dazi decisi dagli Usa su pannelli solari e frigoriferi.
Ma la terza osservazione è forse la più interessante. Malgrado la grande attenzione che l’amministrazione Usa ha dedicato al commercio internazionale sin dal suo insediamento, nonostante la svalutazione del dollaro e adesso pure i dazi, il saldo commerciale non è mai stato così negativo negli ultimi mesi.
Questa evidenza, a meno di non voler accusare la sfortuna, lascia ipotizzare che il saldo commerciale statunitense abbia dinamiche appena più complesse di quelle che fanno semplicemente riferimento al tasso di cambio. La forte svalutazione del dollaro verso l’euro, per fare l’esempio più vicino a noi, non ha per esempio impedito all’Italia di realizzare una crescita dell’export verso gli Usa di circa il 10% nel 2017 rispetto al 2016 e addirittura di oltre il 17% a dicembre 2017 rispetto allo stesso mese del 2016.
Se allunghiamo lo sguardo sul saldo commerciale Usa nell’ultimo decennio troviamo un altro elemento suggestivo che arricchisce l’osservazione e il nostro ragionamento.
In sostanza il saldo commerciale Usa migliora drasticamente, arrivando a dimezzarsi il deficit, solo fra la fine del 2008 e il 2009, quando il commercio internazionale conosce il suo collasso peggiore, proprio in corrispondenza di una ripresa del dollaro, che si apprezza in corrispondenza del flight to quality verso gli asset Usa generato dalla crisi.
Se uniamo i puntini, queste evidenze ci consentono di delineare una congettura vagamente contro intuitiva relativamente al rapporto che lega il valore del dollaro al saldo commerciale Usa e al commercio internazionale, che potremmo semplificare così: un dollaro debole peggiora il saldo commerciale Usa e insieme favorisce il commercio internazionale. Se così fosse, svalutare il dollaro servirebbe poco al commercio Usa, ma sarebbe positivo per il commercio internazionale, che infatti è cresciuto l’anno scorso in corrispondenza con la forte svalutazione della valuta Usa e malgrado le restrizioni non siano certo diminuite. Merito anche della ripresa, certamente, ma forse anche della particolare configurazione del commercio internazionale, dove il dollaro gioca un ruolo pressoché unico.
Proprio di questo parla un recente paper diffuso dalla Bis, la Banca dei regolamenti internazionale di Basilea, che si basa sull’osservazione del ruolo crescente giocato dalla catene globali di valore (Global value chain, GVC) nel commercio internazionale dove si intersecano due temi dove il dollaro gioca un ruolo determinante: quello finanziario, legato ai capitali necessari per produrre e far funzionare le esportazioni, e quello più spiccatamente commerciale, visto che molte transazioni sono denominate in dollari. “Il risultato dell’interazione di questi due i temi è che il tasso di cambio del dollaro risulta come determinante dell’attività delle GVC. In particolare, un dollaro più forte è associato a un credito più rigido e a condizioni e attività di GVC ridotte. Di conseguenza, le esportazioni da un’economia emergente possono cadere quando la sua valuta si deprezza contro il dollaro”.
Insomma, il canale finanziario del commercio internazionale espresso in dollari ha un’importanza rilevante, provocando effetti addirittura contrari a quelli che siamo abituati a considerare. “Paradossalmente, una valuta più debole rispetto al dollaro potrebbe in realtà servire a smorzare i volumi commerciali, piuttosto che stimolarli”. La svalutazione del dollaro, insomma, fa bene al commercio internazionale. Al tempo stesso, lo abbiamo visto nel 2017, peggiora il saldo commerciale Usa, anziché migliorarlo come si potrebbe credere. È una congettura certo. Ma sarebbe saggio prenderla in considerazione prima di minacciare guerre valutarie. Si rischia di far danni e per giunta inutilmente.
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