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Il boom dei lavoratori inattivi in America è siesta forever o un grosso problema?
C’è molto da imparare osservando la curiosa evoluzione del mercato del lavoro statunitense ed è una buona prassi seguirne le vicissitudini, innanzitutto perché l’andamento dell’occupazione è uno dei punti di riferimento della Fed. I dati sul lavoro contribuiscono a definire la politica monetaria Usa che, ci piaccia o meno, ha effetti globali. Ma non è l’unico motivo per cui è opportuno ragionarci sopra. Gli andamenti che vediamo all’opera in questo paese somigliano notevolmente a quelli osservati in altre economie avanzate, a tal punto che non è esagerato chiedersi se gli Usa non siano semplicemente gli apripista di tendenze sul lavoro divenute ormai globali.
Qualunque ragionamento sul mercato del lavoro non può che partire dal tasso di disoccupazione, ossia il numeretto che i policy maker mettono alla base delle loro politiche economiche, basandosi sulla semplice assunzione che un calo della disoccupazione sia una cosa positiva. Senonché tale affermazione autoevidente nasconde alcune complessità che tendono ad essere sottovalutate nei titoli dei giornali. E il caso americano ne è un chiarissimo esempio. Il tasso di disoccupazione negli Usa, infatti, è arrivato ai suoi minimi di questo secolo dopo la straordinaria impennata che lo aveva condotto a superare il 10% con l’esplodere della grande crisi del 2008.
Sul finire del 2017 il tasso di disoccupazione era ben sotto il 5% (4,4%), poco sopra il minimo toccato agli inizi degli anni 2000 (3,9%), all’incirca al livello di fine 2006 (4,5%). Se andiamo alla coda della serie, notiamo che tale indice è all’incirca al livello del 1970. Se fosse tutto qua potremmo semplicemente complimentarci con la Fed, che è riuscita a centrare il primo dei suoi obiettivi (per l’inflazione il giudizio è ancora sospeso). Ma siccome il diavolo si annida nei dettagli, usualmente trascurati dalle cronache, vale la pena leggere il dato della disoccupazione associandolo con un altro, quella della partecipazione.
Questo grafico mostra come a dicembre del 2017 il tasso di partecipazione fosse lo stesso di quarant’anni fa, ossia il 62,7%. Con un’importante differenza: rispetto al 1977 è aumentata la partecipazione delle donne ed è diminuita quella degli uomini. Lo stesso numero, insomma, fotografa due società molto diverse. E c’è un’altra importante differenza che dobbiamo osservare fra il dicembre 1977 e quello 2017: il tasso di disoccupazione di allora era al 6,7%.
Per apprezzare il significato di questi dati è bene ricordare che il tasso di partecipazione misura il rapporto fra la forza lavoro di un paese e la popolazione civile in età lavorativa. A sua volta la forza lavoro è la somma di lavoratori occupati e lavoratori in cerca di occupazione (e quindi disoccupati). Altrettanto importante ricordare che il tasso di disoccupazione è il rapporto fra il numero dei disoccupati e la forza lavoro. Trattandosi perciò di un rapporto, il suo valore può cambiare o perché muta il numeratore o perché cambia il denominatore oppure entrambi. Nel caso del tasso di partecipazione le variabili che dobbiamo osservare sono la forza lavoro e la popolazione in età lavorativa. Per conoscere la forza lavoro dobbiamo sommare gli occupati ai senza lavoro. E, quindi, calcolare il tasso di partecipazione, rapportando questa somma alla popolazione in età lavorativa.
E così arriviamo alla terza differenza fra il dato del 1977 e quello del 2017. Avere una disoccupazione più bassa a parità di tasso di partecipazione è possibile a patto che aumentino coloro che non cercano lavoro pur essendo in età lavorativa, ossia i cosiddetti inattivi. E in effetti i dati confermano questa tendenza.
Pure ammettendo che una parte di questa notevole crescita del tasso di inattività dipenda dal fatto che molti preferiscono continuare gli studi, è curioso osservare che il numero degli inattivi è sostanzialmente stabile lungo gli anni ’80 e ’90 per cominciare a impennarsi a partire dagli anni 2000, un arco di tempo troppo breve per pensare che in qualche modo sia connesso a fenomeni congiunturali. La stranezza si amplifica se questo grafico si confronta con quello che misura l’andamento della popolazione in età lavorativa.
Come si può osservare nell’ultimo ventennio del XX secolo la popolazione in età lavorativa è aumentata di quasi 40 milioni di unità senza che a ciò abbia corrisposto un sostanziale aumento degli inattivi, rimasti sostanzialmente stabili. Al contrario, dal 2000 in poi la popolazione in età lavorativa è aumentata di circa 25 milioni di unità quasi quanto gli inattivi, passati dai 56 milioni dei primi anni 2000 a oltre 76 milioni. Non essendo entrati nella forza lavoro, questi inattivi non risultano disoccupati né occupati. E questo spiega perché il tasso di disoccupazione sia molto basso oggi mentre era più alto nel 1977, quando gli inattivi erano circa 52 milioni.
Questo curioso esito – ossia una ripresa del mercato del lavoro con bassa partecipazione a causa di elevata inattività – sembra dia nutrimento al vero tarlo che rode dall’interno la ripresa Usa (e non solo quella degli Usa): la bassa produttività. Anche qui c’è una curiosa similitudine con gli anni ’70: il tasso di crescita del Pil pro capite per lavoratore è tornato al livello di quegli anni.
Se tale andamento dipenda da questioni demografiche, dall’alto debito, o dalla conformazione stessa assunta dal mercato del lavoro Usa – perché magari ci sono molti part time involontari – è questione aperta. Sappiamo solo che non si intravedono spiragli di miglioramento. La ritrovata fiducia nell’economia che sembra allignare ovunque in questi mesi potrà pure far dimenticare questa evidenza. Ma non per sempre.
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