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Trump spinge gli Usa verso l’isolamento ma l’Europa può fidarsi della Cina?
Negli ultimi decenni la Cina ha acquisito una dimensione economica globale che l’ha portata a diventare la seconda economia al mondo e il primo esportatore di merci nonché, con una stima che supera i 3 mila miliardi di euro, il maggior accumulatore di riserve valutarie del pianeta. A questa crescita si è accompagnato uno sviluppo delle relazioni internazionali tra cui spiccano quelle con l’Unione europea.
L’UE, con i quasi 500 miliardi di euro di interscambio commerciale registrato nel 2016, rappresenta infatti il primo partner commerciale della Cina, più ancora degli Stati Uniti. D’altronde circa un prodotto su cinque importato nell’UE è cinese così come UE è la principale origine dei prodotti importati in Cina, mentre all’export per entrambi il più importante mercato di sbocco dei propri prodotti restano al momento gli Stati Uniti. Subito dietro gli USA, tuttavia, figura la Cina per quanto riguarda l’export UE, e l’Unione europea per quanto riguarda l’export cinese.
Una relazione commerciale bilaterale cresciuta in maniera esponenziale negli ultimi dieci anni e il cui saldo nel 2016 si è attestato a oltre 175 miliardi di euro in favore della Cina, confermando la tendenza di questo Paese ad accumulare considerevoli avanzi commerciali nei rapporti con l’Unione europea. A ciò fa parzialmente da contraltare l’interscambio di servizi, nell’ambito del quale l’UE ha registrato nel 2016 un surplus di oltre 10 miliardi di euro.
L’affermazione nel commercio internazionale della Cina – che esporta ormai non solo i tradizionali prodotti del settore manifatturiero, tessile e calzaturiero, ma anche macchinari industriali, prodotti chimici e agroalimentari – è stata favorita dall’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001 che le ha permesso di integrarsi nel sistema degli scambi multilaterali. Ciò tuttavia è avvenuto parzialmente, secondo la stessa volontà cinese e contrariando i Paesi più avanzati, inclusi quelli europei.
Poiché, da un lato, la Cina si è ritagliata un ruolo di primo piano negli scambi con il resto del mondo, dall’altro ciò è avvenuto anche attraverso pratiche commerciali che hanno danneggiato i Paesi più sviluppati e dalle quali sono scaturite misure antidumping, anti sussidio e dispute commerciali demandate agli arbitrati internazionali. Menzione a parte merita poi il problema della contraffazione che da tempo affligge l’industria manifatturiera europea ed è ben fotografato dai numeri che mostrano come nel 2016 oltre l’80% dei sequestri effettuati nei Paesi UE riguardava merci provenienti dalla Cina, ovvero circa 25 milioni di articoli per un controvalore di oltre 400 milioni di euro.
Le criticità nei rapporti bilaterali UE-Cina tuttavia non finiscono qui, poiché in Cina normative e procedure interne ostruiscono il livello successivo di interazione economica: l’investimento diretto nel Paese. La Cina, infatti, sconta ancora ritardi nell’apertura del mercato interno al capitale straniero, nonostante sia una delle più promettenti destinazioni del flusso di investimenti proveniente dai Paese avanzati. Ed è peculiare che un campione del commercio globale si collochi stabilmente nelle primissime posizioni quanto a restrittività rispetto agli investimenti stranieri, e ciò nonostante negli ultimi lustri l’élite governativa abbia avviato una serie di riforme volte a recepire maggiormente i principi del libero scambio in seguito al già citato ingresso nel WTO.
Riforme però insufficienti a superare problematiche come la scarsa trasparenza delle autorità cinesi, l’insufficiente protezione dei diritti di proprietà industriale inclusi i rimedi giudiziari per le imprese straniere danneggiate, restrizioni preventive o successive all’insediamento industriale anche sotto forma di vincoli alla percentuale di quote societarie detenibile in mani straniere oppure obblighi a costituire joint-ventures con imprese cinesi, livelli minimi di investimento prestabiliti, limitazioni all’assunzione di personale straniero, obblighi al trasferimento su suolo cinese di tecnologia avanzata come precondizione per operare e altre forme di intervento statale che discriminano le imprese straniere in favore delle imprese cinesi in settori come l’auto, l’energia, l’edilizia, la distribuzione, i servizi finanziari e professionali, le telecomunicazioni, l’industria manifatturiera e chimico-farmaceutica, la sanità.
L’insieme di tali misure è finalizzato a sostenere l’obiettivo di lungo periodo dell’innovazione domestica abbinata alla razionalizzazione e al supporto delle industrie chiave del Paese, al fine di garantire la transizione dell’economia cinese a tassi di crescita sostenibile guidata dalla domanda interna, favorendo nel contempo l’affermazione di grandi gruppi cinesi capaci di imporsi globalmente rivaleggiando con le multinazionali dei Paesi più sviluppati. Una strategia che già oggi sta dando i suoi frutti, poiché alcune importanti compagnie cinesi hanno catturato una rilevante fetta di mercato domestico diventando competitive nei settori altamente tecnologici come quello chimico, l’elettronica, l’ITC, l’automotive e l’aeronautica, costituendo propri marchi ed espandendosi a livello internazionale.
La politica della Cina nei confronti del capitale straniero è comune a quella di altri grandi Paesi coscienti di possedere un mercato interno dal potenziale talmente rilevante da non scoraggiare i flussi di investimento dall’estero. La Cina, infatti, è il terzo ricettore al mondo di investimenti dall’estero nonostante condizioni operative non ottimali soprattutto in alcuni settori. D’altra parte, ultimamente il governo cinese è intervenuto a incoraggiare i flussi di capitale dall’estero nei settori di suo gradimento come ad esempio quelli altamente tecnologici o nella green economy, creando anche alcune zone economiche speciali in cui garantisce agevolazioni fiscali agli investitori stranieri. Detto questo, dopo l’analisi dell’interscambio commerciale, appare utile soffermarsi proprio sul flusso di investimenti UE-Cina.
Innanzitutto, il flusso di investimenti dalla Cina verso il resto del mondo è aumentato esponenzialmente negli ultimi dieci anni non risentendo degli anni di crisi e collocando il Paese tra i principali investitori del pianeta. Tuttavia, restringendo l’analisi al flusso di investimenti bilaterale UE-Cina, si nota che esso stride con i numeri dell’interscambio commerciale. Gli investimenti cinesi nell’UE, infatti, si attestano a livelli ancora lontani da quelli degli Stati Uniti, tuttora il principale investitore straniero nell’Unione. Basti pensare che nel 2015 la Cina investiva nell’UE circa 34 miliardi di euro contro gli oltre 2.380 miliardi degli USA, ovvero meno dell’1% del totale degli investimenti provenienti dall’estero e diretti nell’UE (percentuale che sale al 2% circa se al flusso di investimenti dalla Cina si somma quello proveniente dalla piattaforma di Hong Kong).
In generale, il flusso di investimenti di matrice cinese è distinguibile in due direttrici a seconda che l’investitore sia un’azienda controllata dallo stato o meno.
Nel primo caso, in Europa – così come in altri continenti – si è assistito a forme di investimento in settori strategici per assicurare il fabbisogno di risorse energetiche, sollevando in alcuni casi dubbi circa l’opportunità di assecondare acquisizioni in settori di interesse nazionale.
Nel secondo, la tendenza dei gruppi cinesi è di acquisire aziende europee attive nei settori ad alto contenuto tecnologico e nei servizi. In entrambi i casi gli investimenti sono avvenuti soprattutto mediante fusioni e acquisizioni societarie che hanno permesso di ottenere il controllo di complessi produttivi preesistenti, pur non mancando casi di investimenti caratterizzati dalla creazione di nuovi insediamenti produttivi.
Anche per quanto riguarda il flusso che dall’UE è diretto in Cina i numeri non sono paragonabili a quelli che si registrano per l’interscambio commerciale. I Paesi UE destinano in Cina ancora una piccola percentuale (poco più del 2% nel 2015) del flusso totale degli investimenti diretti fuori dall’Unione. Tra questi, un ruolo importante assume la Germania con i suoi investimenti in Cina nel settore auto. Per favorire gli interessi in materia, fin dal 2013 le parti hanno avviato negoziati, giunti ormai al sedicesimo round, per la conclusione di un Investment Agreement volto a proteggere gli investimenti e il capitale a condizioni di reciprocità, secondo principi di maggiore trasparenza e non discriminazione.
A questo proposito, nel momento in cui nella prima economia al mondo si assiste al ritorno a politiche protezioniste e isolazioniste, assume maggior rilievo un negoziato di questa portata tra i soggetti che potrebbero trovarsi nelle condizioni di approfittare della fase storica vissuta dagli Stati Uniti per contestarne la leadership nella fissazione degli standard del commercio internazionale, con le ricadute geopolitiche che responsabilità simili portano con sé.
Standard che però ancora non prevedono, tra le regole di ingaggio, un’adeguata protezione del fattore lavoro. Sebbene sul punto si possa discutere del livello di tutela garantito ai lavoratori negli stessi Paesi UE, appare in ogni caso poco plausibile immaginare di trattare determinati argomenti quando ci si siede al tavolo del negoziato con un Paese che, tra l’altro, da oltre trent’anni ha eliminato dalla costituzione il diritto di sciopero, non ha mai ratificato le convenzioni internazionali relative alla libertà di associazione, sindacale e di contrattazione collettiva né quella che abolisce il ricorso al lavoro forzato.
Twitter @andreafesta_af
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