categoria: Res Publica
Crisi d’impresa, vi spiego perché la parola fallimento non mi mancherà
La pubblicazione qui su Econopoly dell’articolo di Giuseppe Amoroso mi ha spinto a qualche riflessione, non troppo tecnica ma anzi anche un po’ “sentimentale”, sulle evoluzioni della disciplina della crisi d’impresa negli ultimi due decenni. Mi occupo infatti di questo aspetto della vita dell’impresa, cioè la loro malattia e talvolta, purtroppo, morte, da quasi 20 anni; me ne sono occupato in maniera piuttosto costante, con alcune doverose pause, sia come consulente finanziario, esterno alle imprese, sia come manager interno, una figura che si è resa sempre più necessaria e che ha fatto nascere la posizione, che ho talvolta ricoperto in aziende private sottoposte a processi di ristrutturazione, di chief restructuring officer.
In questo lasso di tempo relativamente breve, è cambiato radicalmente l’approccio a questo aspetto della vita dell’impresa, che personalmente ricomprenderei nel più ampio ventaglio dei casi di “finanza straordinaria”: questi normalmente sono altri, come la quotazione, le fusioni fra aziende, le acquisizioni, ma anche in caso di crisi si impone, a mio parere, la necessità, per le aziende, di reagire in modo appunto “straordinario” a questa situazione, di curarsi da questo “malanno” e di cercare di uscirne con l’idea di farlo in maniera strutturale e di non tornare ad ammalarsi di lì a poco (cioè di non rendere la crisi un fatto “ordinario”).
Non è questa la sede per discutere delle soluzioni manageriali che una tale situazione può e deve (o dovrebbe) spingere ad adottare, ce ne sarà probabilmente occasione in futuro. Ciò che volevo illustrare è un indubbio processo di ammodernamento complessivo della disciplina che fornisce l’inquadramento giuridico degli strumenti a disposizione dell’imprenditore che si imbatte in una situazione di crisi d’azienda, sia essa dovuta a performance economiche non soddisfacenti (riduzione di fatturato e/o di margini industriali e profitti operativi) sia essa dovuta al “solo” problema di squilibrio delle fonti finanziarie. Mi riferisco al classico sovraindebitamento, così tipico della struttura delle PMI italiane, dove il capitale di rischio è spesso ridotto in relazione all’entità del debito verso terzi finanziatori, in particolare banche.
Nei primi anni Duemila, quando come detto iniziai a occuparmi di questi casi, la disciplina dell’insolvenza non vedeva di fatto altri strumenti se non la procedura concorsuale: il concordato preventivo ed il fallimento (oltre all’amministrazione controllata, poi abrogata); si trattava sostanzialmente di procedure liquidatorie sotto il controllo di organi nominati dal Tribunale competente.
Al di fuori di questi scenari si poteva operare solo per gruppi di dimensioni elevate, con accesso all’amministrazione straordinaria, che peraltro non ha una configurazione unitaria, essendo disciplinata dalla sequenza di leggi intervenuta con la “legge Prodi” (all’epoca ministro dell’Industria) del 1979, poi sostituita dalla Prodi bis del 1999, con la “legge Marzano” del 2004 (che opera in parallelo alla “Prodi-bis”, pur operandovi numerosi rinvii) e con la “Marzano bis” del 2008, più nota come “decreto Alitalia”; tutte norme relative alle “grandi e grandissime imprese in crisi”; l’amministrazione straordinaria prevedeva e tutt’ora prevede di fatto, e in estrema sintesi, una gestione commissariale più attenta al mantenimento in continuità delle operazioni aziendali, sotto la sorveglianza del ministero delle Attività Produttive (oggi MISE) in luogo di quella giudiziaria (pur rimanendo rilevanti i poteri in capo al Tribunale).
Ma al di fuori di queste (doverose) eccezioni, la gran parte delle aziende in crisi era di fronte ad un grande spartiacque: accedere ad una procedura concorsuale o cercare di evitarla con tutti i mezzi; la procedura concorsuale era vista quindi (correttamente) come la fine dell’impresa e la sua liquidazione da parte del Tribunale.
Si capisce quindi bene come la strumentazione a disposizione del manager o del consulente per aiutare l’imprenditore a superare la situazione patologica fosse piuttosto scarna: ovviamente la primaria necessità era una diagnosi accurata del PERCHÉ l’azienda era in crisi e delle possibili strade per risolverla, ma gli strumenti a disposizione erano limitati e non vi era la possibilità di cercare “protezione” dalle azioni dei creditori (come ad esempio previsto dal famoso Chapter 11 in vigore negli Stati Uniti, così tanto invocato da noi consulenti in quegli anni).
Fu tra l’altro per tale ragione che la prassi inventò il concordato c.d. stragiudiziale, quale strumento di continuità, pur con tutte le difficoltà del caso, anche connesse alla mancanza di una disciplina.
L’approccio complessivo a questi casi risultava, così, pesantemente viziato da questa situazione: il gruppo dirigente dell’azienda deciso ad evitare con tutte le sue forze la procedura concorsuale; i negoziati con i creditori (in particolare bancari), quindi, privi di strumenti adeguati, operandosi in un contesto non previsto dalla disciplina positiva. Di conseguenza, spesso, l’insuccesso di questi negoziati determinava spiacevoli conseguenze, anche penali, per i soggetti che li avevano proposti ed attuati confidando nel loro successo (non importa ora stabilire con quanta abilità e ragionevolezza era costruite queste ipotesi di salvataggio).
Ciò perché l’ordinamento, se da un lato non prevedeva strumenti di soluzione preventiva della crisi, dall’altro lato non mancava invece di sanzionare i tentativi comunque posti in essere ma non andati a buon fine, rappresentando l’entrata in procedura concorsuale (e non il solo fallimento) il presupposto dei reati fallimentari, normalmente integrati nei suddetti tentativi ma non punibili in difetto di tale presupposto (si pensi, per esempio, all’alterazione della par condicio e alla bancarotta preferenziale; tralasciando comportamenti dolosi di distrazione, ovviamente sempre deprecabili qualsiasi sia lo strumento adottato, ma non certo connaturati, di per sé, nei tentativi di salvataggio cui stiamo facendo riferimento).
Si apriva, poi, in caso di insuccesso, la tematica delle azioni revocatorie fallimentari, che in realtà, già in sede di analisi degli scenari possibili di risanamento, finiva con l’assumere una rilevanza negativa sui tentativi di salvataggio, spesso ostacolati dal timore di revocatorie in chi avrebbe dovuto continuare ad operare con il soggetto in difficoltà, ma era consapevole (come pochi lo erano) delle spiacevoli conseguenze che avrebbe dovuto affrontare in caso di fallimento (perché “non poteva non sapere”).
Con la riforma della legge fallimentare del 2006, un deciso e formidabile passo avanti è stato fatto: non è questa la sede per illustrarne nel dettaglio i contenuti, ma la riforma introduce finalmente la possibilità di una gestione PREVENTIVA della crisi d’azienda; vengono introdotti i piani di risanamento e gli accordi di ristrutturazione, con i quali finalmente si ha a disposizione lo strumento per accordarsi con i creditori su un piano cooperativo, per uscire dalla crisi e favorire il riequilibrio della situazione aziendale: con questi piani/accordi, anche i soggetti attivi nella identificazione delle soluzioni (tipicamente i consulenti, le banche creditrici e gli amministratori) vengono in qualche maniera protetti, a determinate condizioni, da conseguenze nefaste; così come i terzi che continuavano a dare fiducia all’azienda in difficoltà, proseguendo regolarmente i loro rapporti commerciali e finanziari.
Tipicamente, anche se qui non li descriveremo nel dettaglio, tali strumenti sono stati di due tipi: i piani di risanamento attestati previsti dall’art 67, terzo comma, lettera d) della Legge Fallimentare (da porre comunque a fondamento di un accordo con creditori), e gli accordi di ristrutturazione dei debiti previsti dall’art. 182 bis della medesima legge: i primi non prevedono una fase giudiziale e sono quindi fuori dal controllo (anche) del Tribunale, mentre i secondi sono sottoposti al giudizio di omologazione da parte del Tribunale competente, previa iscrizione al Registro Imprese che ne assicura la pubblicità (prevista, per i primi, soltanto dal 2012 e solo come facoltativa); entrambi gli strumenti prevedono l’attestazione, da parte di un terzo indipendente, dell’idoneità del Piano proposto a favorire la soluzione della crisi (sufficiente e conclusiva, nel “67”, da verificare in sede di omologazione, nel “182bis”), ed in entrambi i casi, come detto, vi è un inquadramento preciso degli atti svolti in esecuzione di questi Piani, in primo luogo per quanto riguarda l’esenzione da revocatoria fallimentare, che come detto aveva rappresentato lo spauracchio dei concordati stragiudiziali (tanto che il “67”, come chiamato in gergo, prende nome proprio dall’essere un caso di esenzione dalla revocatoria fallimentare, disciplinata proprio dall’art.67 della L.F.).
Con queste importanti novità, è cambiato l’approccio di chi professionalmente si occupava di crisi d’azienda: finalmente c’erano soluzioni per gestire in concreto situazioni che prima venivano affidate a strumenti estemporanei; il ceto creditorio, in particolare bancario, ha avuto così la possibilità di “pesare” nelle risoluzioni delle crisi aziendali, ma soprattutto i soggetti coinvolti avevano la possibilità di collocare le azioni da svolgere in esecuzione di un piano asseverato all’interno di un contesto giuridico preciso e tutelante per tutti, e per tale via di “qualificare” le azioni svolte nell’ambito del Piano.
Il processo di riforma della legge fallimentare ha avuto un altro importante, ancorché molto discusso, tassello nel 2012, quando di fronte alla crisi dilagante il governo Monti introduce il c.d. concordato in bianco, o prenotativo (art. 161, sesto comma della Legge Fallimentare): con questa semplice istanza al Tribunale l’azienda in crisi, che magari aveva provato a gestire preventivamente la propria situazione in via stragiudiziale ovvero con il precedente ricorso a Piani ex art. 67 o 182 bis non andati a buon fine, chiede un termine (di massimo 4 mesi, ridotti a 2 in caso di pendenza di istanza di fallimento, con possibile proroga, in ogni caso, di massimo altri 2 mesi) per presentare la proposta concordataria ai propri creditori; ma gli effetti dell’entrata in procedura, e quindi di protezione dalle azioni esecutive dei creditori, sono immediatamente efficaci, con la gestione aziendale che, perlopiù, è lasciata agli amministratori della Società (sia pure solo per l’ordinaria amministrazione, mentre gli atti di straordinaria amministrazione divengono soggetti all’autorizzazione del Tribunale) in attesa della presentazione della proposta concordataria, poi soggetta ovviamente all’approvazione dei creditori chirografari.
Lo strumento del concordato in bianco, che effettivamente si è prestato ad abusi, essendo stato spesso utilizzato solo con intenti dilatori, ha contribuito ulteriormente a dare la possibilità di gestire in anticipo e per tempo (o, meglio, di continuare a farlo) casi di crisi d’azienda, consentendo di evitare la disgregazione del complesso aziendale (sotto i colpi delle azioni esecutive dei creditori, peraltro con alterazione della par condicio creditorum, e privilegiando invece i più rapidi) e contribuendo a garantire la continuità aziendale, spesso in via indiretta per tramite di affitti d’azienda; un utilizzo “civile”, responsabile e non opportunistico, di questo strumento, quindi coerente con la propria ratio, ne fa senza dubbio un’utile soluzione per avere il tempo necessario a presentare ai creditori una proposta articolata e ben documentata, evitando la precedente “corsa contro il tempo”.
La riforma del 2012 introduce anche una disciplina ad hoc – con un apparato documentale rafforzato – per il concordato in continuità, verso il quale l’ordinamento non ha mancato di mostrare poi tutto il proprio favore, all’opposto del trattamento riservato al concordato liquidatorio (per esempio, dal 2015, solo per quest’ultimo richiedendo il pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari): anche questa è un’innovazione volta a preservare l’avviamento del complesso aziendale, pur in crisi, e ad evitarne la disgregazione per il tramite di un mero processo liquidatorio.
Venendo ai giorni nostri, i risultati della Commissione Rordorf, nella mia visione, vanno a completare questo percorso che ho cercato di tratteggiare sinteticamente in questo articolo (ad esempio con la procedura di allerta, che accende un faro sulle crisi e ciò, di nuovo, per gestirle al meglio molto prima di una degenerazione delle stesse): ma ci sarà modo, nei prossimi mesi, di tornare su questa riforma, che peraltro deve completare il suo iter.
Molto interesse e anche un po’ di clamore, come nell’articolo di Giuseppe Amoroso, ha suscitato la scomparsa del termine “fallimento” dall’ordinamento, sostituito da una più asettica denominazione di “liquidazione giudiziale”; e d’altronde questo è (ed è sempre stato) il fallimento: una procedura di realizzo degli attivi da parte di un liquidatore giudiziale (il curatore del fallimento).
Non ci mancherà, il termine “fallimento”, sempre che si riesca davvero a dimenticare, e non ci mancherà il connesso giudizio etico-morale sui falliti (cui fino a poco tempo fa erano anche tolti alcuni diritti civili); a me sembra che questo piccolo segnale ”semantico” vada a completare idealmente tutto il processo descritto con il fallimento – ops! liquidazione giudiziale – destinato a rimanere, speriamo, un caso residuale.
Di certo, cambiare solo il nome alla procedura non risolverebbe alcun problema, ma altrettanto certamente questo intervento non può certo dirsi un intervento isolato, rappresentando, come abbiamo cercato di descrivere, l’approdo di un lungo percorso che, per una volta, può senz’altro dirsi positivo.
Twitter: @dorinileonardo