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Così la classe media s’è ristretta, tartassata da fisco e globalizzazione
Nel grande libro delle nostre cronache economiche cresce di volume il capitolo dedicato al tema assai popolare della diseguaglianza ove occupa uno spazio crescente un’altra questione ad esso correlata: la graduale sparizione della classe media, alla quale stiamo assistendo da almeno un paio di decenni. Sulle ragioni di tale tendenza sono stati versati i canonici fiumi d’inchiostro, con la globalizzazione grande indiziata nel processo intentato dalle opinioni pubbliche di mezzo mondo. Mezzo mondo letteralmente, visto che la globalizzazione trova illustri difensori fra i campioni dei paesi emergenti, e non a caso.
Il teorema dell’aumento della diseguaglianza, del quale la sparizione della classe media è un corollario, cela infatti una natura bifronte che viene messa bene in evidenza nell’ultimo Fiscal Monitor del Fmi. L’analisi cela in sostanza un dilemma di difficile scioglimento, visto che, come si può osservare da questo grafico
la diseguaglianza è diminuita globalmente mentre è aumentata all’interno dei paesi. In sostanza l’indice di Gini, che lo ricordo è uno degli indicatori statistici utilizzati per misurare l’equità della distribuzione di reddito e ricchezza all’interno di una società, è diminuito di alcuni decimi di punto negli ultimi trent’anni su scala globale, mentre è aumentato all’interno di alcuni paesi a partire dalla fine del XX secolo.
In sostanza, la diminuzione della povertà globale, guidata dai progressi registrati in Cina e in altri paesi emergenti, è stata in qualche modo associata a una maggiore diseguaglianza a livello locale, con i paesi avanzati a subire l’effetto più rilevante per la semplice ragione che la classe media vi è cresciuta e ha prosperato a partire dal secondo dopoguerra. Quindi chi dice che la diseguaglianza è aumentata dice una mezza verità o una mezza bugia, dipende da come la si vede.
Se focalizziamo la nostra attenzione sull’aumento della diseguaglianza all’interno dei singoli paesi, ci ritroviamo nel pieno nella narrazione che va per la maggiore, con i ricchi che diventano più ricchi e i poveri che aumentano. Ciò in conseguenza oppure a causa, dipende sempre da come la si veda, proprio dell’assottigliarsi della classe media. Ma l’analisi del Fmi diventa interessante quando prende in esame un altro possibile indiziato in questo processo: il declino pluridecennale della progressività fiscale, associato al suo compagno di ventura: la liberalizzazione dei flussi di capitale. Ecco come la racconta il Fondo.
In sostanza, c’è stato un notevole calo delle imposte sui redditi elevati dall’inizio degli anni ’80 che viene associato al fatto che oggi il 10% più ricco detiene il 50% della ricchezza globale, mentre si nota che ci sono poche prove che un aumento delle tasse scoraggi la crescita.
Se unite i fili, il sottotesto è molto chiaro. I policymaker dovrebbero prendere in considerazione l’idea di tornare a far crescere la progressività sui più ricchi, che però, nota il Fondo, sono i grandi influencer della vita pubblica. Il che rende l’opzione politicamente poco praticabile. Ricordo che all’inizio degli anni ’80 in alcuni paesi (il Giappone) l’aliquota più alta sfiorava il 90%, come si può vedere da questo grafico:
“La progressività è molto diminuita negli anni ’80 e negli anni ’90 ed è rimasta sostanzialmente stabile da allora”, scrive il Fmi. Nei tre decenni trascorsi dagli anni ’80 il top income tax rate, ossia l’aliquota più elevata, nella media dei paesi Ocse è passato dal 62% del 1981 al 35% del 2015. Questa tendenza è ormai notoria.
Al contrario, si ricorda meno quello che è successo negli anni ’90. “Molte riforme fiscali fin dagli anni ’90 – scrive il Fmi – hanno riguardato un aumento delle soglie di esenzione, associato a un minor tasso di progressività, causando uno spostamento nel peso della tassazione dai redditi molto bassi e molto alti a quelli medi”.
La famosa classe media. I ricchi sono diventati più ricchi e i poveri meno poveri, solo che al contempo, anche per le varie crisi che si sono succedute, è iniziato quel processo di scivolamento verso la povertà dei molti della classe media che si trovavano ai margini, con ciò aumentando il numero complessivo dei poveri. I poveri sono diventati meno poveri, ma sono aumentati di numero. Questo mutamento è osservabile dal grafico che abbiamo visto prima: l’indice di Gini all’interno dei paesi inizia a peggiorare proprio dagli anni ’90, in confronto alla fine degli anni ’60, e poi di nuovo dopo il 2003. La crisi del 2008, in media, sembra non abbia avuto effetti su questo processo.
Il Fmi non analizza le ragioni di queste scelte di politica fiscale, che ha riguardato pressoché tutti i paesi avanzati. Però osserva un’altra caratteristica di questo trentennio: lo spostamento crescente della tassazione sul lavoro a vantaggio del capitale, motivata in parte con l’esigenza della competizione in un mondo dove i capitali venivano lasciati sempre più liberi di circolare.
Sia come sia, il risultato è chiaro. La diseguaglianza all’interno di molti paesi paesi è aumentata. Molto sarà dipeso dalle crisi, o dall’internazionalizzazione, come dicono i No global, trascurando di ricordare che la diseguaglianza globale è diminuita. Ma anche i governi hanno fatto la loro parte.
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