categoria: Res Publica
Non è un Paese per spintarelle gentili
L’autrice di questo post è Vitalba Azzollini, giurista. Lavora presso un’Autorità di vigilanza. Scrive (a titolo personale) in tema di diritto su riviste on line (tra le altre, La Voce e Noise from Amerika), blog (Phastidio e Istituto Bruno Leoni) e giornali. Autrice di paper per l’Istituto Bruno Leoni –
Il Nobel 2017 a Richard Thaler rappresenta il definitivo riconoscimento dell’importanza dell’economia comportamentale nelle valutazioni dei decisori. Nel 2015, quando provai a spiegarne su Econopoly i motivi di interesse nell’ambito della regolamentazione – richiamando l’executive order con cui Obama formalizzava l’utilizzo delle scienze cognitive nel disegno delle politiche pubbliche – in Italia il tema era conosciuto da pochi. La sua rilevanza, invece, era ben nota al governo britannico e alla Casa Bianca, così come ad altri Paesi ove, già da tempo, il behavioral approach viene utilizzato per orientare i cittadini verso soluzioni di benessere individuale e sociale.
Giova rammentare, in sintesi, le linee essenziali di questo approccio, applicato alla regolamentazione. Le persone compiono scelte da esseri umani (humans) e non da uomini economici (econs): ciò significa che i loro comportamenti costituiscono spesso reazioni indotte da sollecitazioni del contesto e da fallacie cognitive più che da ragionamenti logici. La conoscenza di quelle maggiormente ricorrenti può essere utile ai decisori pubblici per strutturare i propri interventi in maniera più efficace; può altresì servire a valutare se, nel perseguimento di determinati obiettivi, è preferibile l’utilizzo del tradizionale command and control, e dunque di strumenti coattivi fondati su obblighi e sanzioni ovvero il ricorso a modalità riconducibili alla nudge strategy. Queste ultime non solo non prevedono l’uso di mezzi di coercizione, come detto, ma neanche incentivi di tipo economico, cioè costi aggiunti; peraltro, consentono di evitare anche i costi connessi alla regolazione in senso proprio (implementazione, applicazione, controllo degli adempimenti ecc.).
Soprattutto, l’applicazione del nudge, pur tendendo a indurre comportamenti che i decisori reputano i migliori per singoli e collettività, lascia comunque intatta la piena e assoluta libertà di ognuno di compiere scelte “cognitivamente limitate”: la discrezionalità personale resta, quindi, salvaguardata.
Quest’ultimo assunto è stato confermato qualche giorno fa da un articolo di Marco lo Conte, il quale rileva come gli italiani appaiano poco inclini ad accettare certe spinte gentili loro indirizzate. Quale spiegazione ne può esserne fornita? Probabilmente, come per molto altro, il contesto nazionale, e dunque il fattore culturale, ha un peso rilevante.
Nei Paesi ove il behavioral approach viene usato con i migliori risultati si riscontrano una serie di elementi concorrenti. Si tratta, innanzitutto, di realtà nelle quali la cultura della trasparenza, consolidata da tempo, da un lato impone ai regolatori di fare piena disclosure sugli obiettivi perseguiti, sulle strategie volte a ottenerli, sui risultati raggiunti; dall’altro, consente ai singoli di verificare l’agire dei pubblici poteri, mediante una serie di strumenti finalizzati alla conoscenza e, quindi, alla comprensione di procedimenti e atti che incidono sulle loro vite. In altri termini, la trasparenza realizza un’interazione tra autorità e cittadini in forza della quale le prime devono rendere conto del proprio operato, mentre i secondi possono esercitare un costante controllo su quanto li riguarda. In questo modo, cioè attenuando la posizione di soggezione dei cittadini, si produce l’effetto di diradare le nebbie dell’innata diffidenza verso ciò che cala dall’alto.
Questa cultura della trasparenza, da cui consegue la accountability dei decisori, è essenziale affinché strumenti alternativi al command and control, quali le “spinte gentili”, possano funzionare. Ma è una “cultura” che non appartiene al contesto italiano. La Pubblica Amministrazione ha sempre goduto di una posizione di inaccessibilità rispetto ai soggetti amministrati, che solo di recente ha cominciato a sgretolarsi con provvedimenti in tema di trasparenza, dalla portata concreta ancora limitata.
Per molti versi, tuttavia, permane ancora una sorta di “sudditanza” dei cittadini nei riguardi della P.A.. Parimenti, resta opaco l’agire dei legislatori, i quali non assolvono agli obblighi previsti in tema di disclosure normativa: omettono di esporre con chiarezza i propri fini; non spiegano i motivi in base ai quali operano determinate scelte, tra le varie opzioni a disposizione; non fissano indicatori di risultato per vagliare (e consentire a chiunque di controllare) ex post se la scelta effettuata è stata davvero efficace.
L’ambito della regolazione resta così avvolto da una coltre di opacità che le dichiarazioni “politiche” non riescono a diradare: gli strumenti previsti dalla legge per “rendere conto” delle decisioni dei rule maker sono altri, e restano per lo più inutilizzati. Quanto esposto non può che suscitare nei destinatari dei provvedimenti pubblici un atteggiamento di sospetto verso chi li adotta. Ed è un sospetto che si rinnova ogni qualvolta emerge chiara la latitanza nell’assunzione di responsabilità per scelte dimostratesi errate o inefficaci: l’assenza di trasparenza in tutto l’iter decisionale, dalle premesse ai risultati, fa sì che non sia mai individuabile chiaramente un soggetto cui imputare in maniera univoca certi fallimenti. Dunque, nessuno paga per il cattivo uso di pubbliche risorse, cioè dei soldi dei contribuenti.
Il contesto italiano non favorisce, quindi, la propensione a dare credito al “potere”. È pertanto evidente il motivo per cui i cittadini, mentre non possono sottrarsi all’osservanza di disposizioni normative assistite da mezzi di coercizione, scansano volentieri ogni spinta diversa e ulteriore, anche se gentile. Ci si conforma con difficoltà ai “desiderata” di coloro nei cui riguardi non si nutre fiducia: il dubbio che perseguano un tornaconto personale, anziché il bene collettivo, può inficiare anche le strategie di persuasione più raffinate.
Se lo Stato è debitore di somme ingenti, a poco varranno le sue gomitatine affinché vengano pagati i crediti che esso, a propria volta vanta. Se la presenza pubblica è sempre troppo invadente nelle attività dei privati, ogni pungolo volto a orientarne le scelte non potrà che essere considerata come l’ennesima forma di ingerenza. Se gli adempimenti burocratici opprimono cittadini e imprese, spintarelle tese a dimostrare la “amicalità” della P.A. non potranno che essere percepite come inutili edulcorazioni di pillole troppo amare. Se la pressione fiscale viene reputata troppo alta e soffocante, a poco possono valere cortesi inviti a pagare tasse spropositate.
Le scienze cognitive sono alla base non solo del nudge e di strumenti similari, ma altresì di ogni tecnica manipolatoria. In assenza di trasparenza e di credibilità dei decisori, il rischio che la spintarella gentile possa essere percepita dai cittadini come una forma di raggiro nei loro riguardi la indebolisce in partenza. Sarà per questo che in Italia le teorie di Thaler vengono guardate con scetticismo: ci meritiamo il command and control e basta, evidentemente.
Twitter @vitalbaa