categoria: Draghi e gnomi
Perché ripulire le banche dagli Npl non rilancerà d’incanto il credito
Anche un osservatore distante come me può vedere che il clima intorno al sistema bancario italiano è notevolmente cambiato negli ultimi tempi. Non passa ormai giorno che non si leggano dichiarazioni di fiducia sulle prospettive del sistema. Lo stesso ministro dell’Economia ha evidenziato, durante la Bloomberg European Banking Conference svoltasi a Milano lo scorso martedì, come il sistema bancario sia giunto ad un punto di svolta. Il mercato, che generalmente si muove in anticipo rispetto ai dati concreti, scommette già da tempo sulla ripresa del settore. L’indice delle banche italiane, nonostante i cali di questi ultimi giorni, è cresciuto di circa il 55% in un anno, il 23% nel 2017.
Ci sono però alcuni elementi che ritengo debbano essere presi in considerazione e che potrebbero determinare una ripresa molto più lenta, o addirittura una stagnazione, dell’attività bancaria nel futuro prossimo.
Liquidità in eccesso nel sistema finanziario italiano
In un post di circa un anno e mezzo fa, a proposito del modo con il quale la nuova liquidità bancaria creata dalla Banca Centrale Europea si andava concentrando nelle zone centrali dell’Euroarea, ipotizzavo che solo con il passare del tempo e l’accumularsi degli acquisti, tale liquidità si sarebbe estesa anche alla periferia. In Italia, fino alla fine dello scorso anno, quasi tutta la nuova liquidità immessa dalla Banca d’Italia nell’ambito del QE è defluita verso l’estero. Da inizio anno però, almeno fino all’ultima rilevazione disponibile, dei 111 miliardi di liquidità creata solo 27 sono andati verso l’estero (incrementando il saldo debitorio verso l’eurosistema), mentre 94 sono rimasti nel sistema come liquidità depositata presso la nostra Banca Centrale. Con l’aumentare della liquidità in eccesso, i tassi del mercato interbancario overnight tendono a schiacciarsi verso il fondo del corridoio fissato dalla BCE, che attualmente è -0,40%.
Se questo abbassamento dei tassi a brevissimo termine rappresenta per imprese e famiglie italiane un miglioramento delle condizioni di finanziamento (dagli ultimi dati disponibili si nota che da inizio anno i tassi sulle principali tipologie di finanziamento di imprese e famiglie sono scesi dello 0,2-0,3%), per le banche costituisce un ulteriore elemento di pressione sulla capacità di generare reddito attraverso il margine d’interesse. Visto che questo fenomeno non è assolutamente transitorio ma durerà, stando alle parole di Draghi, per un “extended period of time”, le banche italiane devono confrontarsi con un nuovo elemento (non presente fino alla fine del 2016) di pressione sulla redditività.
In altri tempi la soluzione tipica al calo del margine d’interesse era la ricerca di nuovi impieghi. Espandendo il grado di leverage, la banca può compensare la minore marginalità con un volume di credito maggiore, stabilizzando o aumentando il ritorno sul capitale. Erano però altri tempi. La crisi del 2008 e le normative di Basilea intervenute in questi anni hanno imposto aumenti dei requisiti di capitale che le banche devono detenere a fronte degli impieghi che effettuano. I prestiti bancari vengono erogati non solo perché esiste una domanda e perché sono ritenuti profittevoli, ma anche perché la banca ha sufficiente capitale per rispettare i requisiti patrimoniali richiesti. La mia opinione, alla luce dell’esperienza di altri Paesi periferici della zona Euro, è che non sia così scontato che le banche, ripulite dai crediti deteriorati, siano poi capaci di espandere i loro impieghi. Almeno, non nel breve/medio termine.
Ripulitura dei Non Performing Loans e requisiti di capitale
Poche settimane fa ho sottolineato su twitter un interessante thread che descrive in modo chiaro come la cessione dei crediti deteriorati, al pari della loro progressiva copertura, sia nella maggior parte dei casi un’attività che assorbe capitale (e quindi capacità di erogare prestiti) invece che liberarlo.
La ragione di ciò sta nel modo con il quale sono valutati i requisiti di capitale a fronte di crediti in default. Il combinato disposto dell’art. 153 e 161 del regolamento sui requisiti patrimoniali e di liquidità permette alle banche che abbiano esposizioni in default, valutate col metodo dei rating interni, di accantonare zero capitale a fronte di questi crediti se la loss given default LGD (perdita in caso di default) è superiore al 45%, se la banca ha effettuato accantonamenti per un valore superiore al 45% del credito lordo in default. Una banca che ha prestiti in default coperti per più del 45% può decidere di non accantonare altro capitale a copertura. Se la stessa banca però decidesse di cedere quei prestiti, nel caso in cui il prezzo di realizzo fosse inferiore a quello netto in bilancio, essa dovrebbe “coprire” tale differenza con altro capitale. Per tale ragione negli anni precedenti le banche non avevano così fretta di cedere le esposizioni deteriorate in bilancio.
Per la stessa ragione, la pressione esercitata dalla Banca Centrale Europea per ripulire dai crediti deteriorati i bilanci delle banche ha comportato la necessità di importanti aumenti di capitale. Unicredit e MPS su tutti. Una pressione che, anche con la nuova guidance diffusa ieri dalla BCE, non tenderà a diminuire. L’impostazione prevalente a livello internazionale è quella secondo cui le banche liberate dai NPLs siano maggiormente in grado di erogare prestiti. Si richiede così che i crediti non performing che emergeranno dall’inizio del prossimo anno debbano essere interamente coperti in pochi anni (2 anni per le esposizioni non coperte da garanzie, 7 per quelle coperte). Forzando in questo modo le banche agli accantonamenti integrali o alla rapida cessione dei NPLs.
Le recenti operazioni di vendita di crediti deteriorati hanno però assorbito capitale anziché generare nuova capacità di fare credito. Se i prezzi di cessione dei portafogli di NPLs dovessero, come presumibile, non raggiungere i valori di carico in bilancio delle banche, anche le future operazioni assorbiranno allo stesso modo capitale e capacità di erogare credito. L’esperienza di Spagna e Cipro conferma come lo stock dei prestiti sia costantemente diminuito anche dopo la cessione delle partite deteriorate.
Così, se mantenere le partite deteriorate comporta la necessità di affrontare un percorso lungo di gestione e valorizzazione che può limitare la disponibilità e la capacità di erogare nuovi prestiti, cedere tali partite a prezzi inferiori di 20 o 30 punti rispetto al valore in bilancio significa utilizzare tutto il capitale disponibile (magari chiedendone di nuovo al mercato) al fine di sola copertura delle perdite. In ogni caso per nuovi impieghi servirebbe nuovo capitale richiesto sul mercato.
A questo punto, in cosa possiamo concretamente sperare? Che la crescita economica, vera e unica cura per i prestiti in default, continui a rafforzarsi. Un recente studio del FMI ha rilevato che una crescita annua superiore all’1,2% potrebbe azzerare lo stock di NPLs in 3, massimo 6 anni (pur essendo molto scettico sul fatto che la nostra economia possa consolidare per più anni una crescita superiore all’1,2%). Solo così, con minori prestiti che entrano in sofferenza, con una futura ripresa della domanda di prestiti e magari un livello di tassi d’interesse più elevato, il sistema bancario potrà veramente aver svoltato.
Twitter @francelenzi