categoria: Res Publica
Perché i referendum non tuteleranno le autonomie (e cosa bisognerebbe fare)
Il prossimo 22 ottobre i cittadini residenti in Lombardia e Veneto potranno partecipare a un referendum consultivo indetto dalle due Regioni per rispondere ai seguenti quesiti: a) Lombardia; b) Veneto.
Il senso del voto
L’azione trova il suo fondamento nell’art. 116 della Costituzione, modificato dalla riforma costituzionale del 2001, e precisamente nel terzo comma, che avrebbe dovuto dar vita al cosiddetto “regionalismo differenziato” (“Terzo Comma” nel prosieguo). Come noto, il referendum non è un passo richiesto dalla Costituzione per dare attuazione al Terzo Comma, ma il passaggio elettorale dovrebbe rappresentare una sorta di legittimazione ad agire in ossequio a un mandato popolare. Sono in molti però a chiedersi il senso di questo voto, sia perché non esiste una bozza di testo che definisca in cosa consisterebbe la richiesta di maggiore autonomia, sia per la vaghezza intrinseca del Terzo Comma stesso (mai applicato fin adesso, non a caso). Nelle interviste e nei proclami, i sostenitori del referendum pongono sempre più l’accento sulle questioni economiche, sul celebre “residuo fiscale” e sull’intenzione di trattenere nei bilanci delle due Regioni le risorse derivanti dalla raccolta di imposte e tasse sui rispettivi territori.
Ma il Terzo Comma è lo strumento adatto per perseguire tali fini? No. Le materie di cui al comma 3 dell’art. 117 della Costituzione – che potrebbero essere oggetto di intesa Stato-Regione – non sono altro che le famose competenze concorrenti, per le quali la potestà legislativa spetta già alle Regioni, con i principi fondamentali affidati allo Stato. Si tratta di una ripartizione che non si può risolvere in favore delle Regioni e che è già di per sé fonte di innumerevoli conflitti dinnanzi la Corte Costituzionale. Nemmeno le altre competenze rientranti nel Terzo Comma riguardano la finanza pubblica (giudici di pace, norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali). Nel quesito lombardo è stato infatti inserito l’inciso «con le relative risorse», che però non è incluso nel Terzo Comma (anche se previsto nella Legge n. 42/2009).
La nostra architettura costituzionale non prevede che ognuno possa mantenere per sé le risorse fiscali prodotte dal territorio, perché vi sono dei diritti individuali che devono essere garantiti per l’intera nazione, come l’istruzione, la giustizia, la difesa, la sanità etc. Anche un miliardario ha un residuo fiscale spaventoso e tratterrebbe volentieri presso la sua dimora tutti i proventi del suo lavoro (o il 75%), ma non può. Sembrerebbe dunque trattarsi di una retorica fine a se stessa, a meno che non si vogliano perseguire strade diverse dalla maggiore autonomia, come quelle dell’indipendenza ad esempio (come ricorda Alberto Negri «Si comincia quasi sempre con l’economia: la Jugoslavia iniziò a disgregarsi quando le repubbliche più ricche non volevano pagare per quelle più povere»).
Sarebbe invece del tutto paradossale – come notato anche dal Prof. Viesti – sostenere da un lato che il Sud debba dipendere meno dal settore pubblico (cosa buona e giusta) e dall’altro ambire ad un aumento della spesa pubblica nel Nord, prescindendo dalle reali necessità, come sembra trapelare da alcuni sostenitori del referendum.
Che fine ha fatto il federalismo?
Nonostante la strumentalizzazione politica, l’insofferenza di un territorio verso sprechi e assistenzialismi merita invece molto rispetto. Sarebbe infatti auspicabile riuscire a ridurre i flussi redistributivi. Ma questi squilibri non avrebbero dovuto trovar rimedio con la Legge n. 42/2009, che delegava al Governo l’emanazione di una serie di decreti legislativi per concretizzare i principi e le direttive contenute nell’attesa legge sul federalismo fiscale? No, perché le mode politiche passano e restano (spesso) solo le commissioni e gli organi creati ad hoc. Complice la crisi del debito, lo Stato è tornato ad accentrare le funzioni, pian piano la foga federalista è andata scemando, molte intenzioni sono rimaste lettera morta e, nella pratica, le Regioni si occupano di sanità e quasi null’altro, le Province sono state svuotate, le Città Metropolitane sono degli ectoplasmi e sui tributi comunali si è fatta tanta confusione, tuttora irrisolta.
Il federalismo fiscale non ha mai trovato vera attuazione, ma è importante capire come la propaganda politica possa arrecare danni all’organicità del sistema. Un esempio riguarda un pezzo di federalismo che sta andando avanti, relativo ai trasferimenti finanziari ai Comuni. La Corte dei Conti ha provato a simulare gli effetti dei cambiamenti in corso, in un’audizione in Parlamento del febbraio scorso, dedicando una particolare attenzione al nuovo sistema perequativo, che avrebbe dovuto segnare il passaggio dal criterio della spesa storica a quello del fabbisogno standard (il mantra che si sente in tutti i talk show, insieme al “costo della siringa”). In sintesi: trasferisco al Comune solo la differenza tra il suo fabbisogno standard e la sua capacità fiscale, non più quanto ha speso l’anno prima. Ma nella pratica gli ostacoli sono molto maggiori. La componente perequativa ha fatto il suo ingresso nella ripartizione del Fondo di Solidarietà Comunale (“FSC”) solo a partire dal 2015, per poi essere rafforzata con l’ultima legge di stabilità, e raggiungerà il suo limite nel 2021, quando sarà pari al 50% dell’FSC (scelta che denota un allontanamento dal disegno originale).
La simulazione della Corte sugli effetti che verranno mostra diverse criticità di un meccanismo che, oltre a penalizzare eccessivamente i piccoli centri, evidenzia distorsioni e paradossi, come alcuni vantaggi per enti che presentano una spesa storica superiore al fabbisogno. E infatti le conclusioni non sono del tutto positive: «La crisi economica e la conseguente scarsità delle risorse hanno reso meno agevole il percorso di attuazione. Un percorso che era volto a ridurre le differenze che caratterizzano la dimensione e l’estensione dei servizi resi alla cittadinanza tra aree territoriali. (…) La scarsità di risorse, oltre ad accentuare il carattere redistributivo dell’operazione, ha reso meno agevole dare corpo a quegli interventi di riduzione degli squilibri nella dotazione infrastrutturale che dovevano contribuire ad un riassorbimento graduale delle differenze. Sul processo hanno, poi, inciso il continuo mutare dell’assetto fiscale decentrato e il blocco dell’autonomia tributaria e fiscale. L’allontanamento dall’impianto originario del Fondo di solidarietà comunale ha rappresentato una diretta conseguenza di tali difficili condizioni. (…) La necessità, peraltro condivisibile, di rendere sostenibile e graduale il processo di redistribuzione sembra aver prevalso sugli altri obiettivi. Dall’analisi svolta, fermi restando i limiti delle attuali modalità di stima dei fabbisogni standard, fortemente influenzati dai livelli dell’effettiva erogazione dei servizi (…), emerge che il meccanismo presenta diverse difficoltà di attuazione rendendo difficile proiettarlo come meccanismo “a regime”. (…) Risulta così una perequazione relativamente debole sulla componente delle funzioni fondamentali (anche perché quella componente si basa sui fabbisogni standard molto correlati alle risorse effettivamente disponibili) ed un forte carattere redistributivo di quella intestata alla componente residuale».
Riforme vs propaganda
Si dovrebbe riflettere su questi dati, su queste prospettive, su queste criticità. Si dovrebbe cercare di capire perché una volta passato l’impeto di uno scontro politico si lascia il tutto nelle mani della burocrazia, quasi come se non fosse più un problema degli eletti, e si abbandona al suo destino una riforma che avrebbe dovuto rivoluzionare l’assetto della finanza pubblica italiana. In questo contesto la richiesta di nuove forme di specialità e la via di un “regionalismo differenziato” ex Terzo Comma potrebbero solo accrescere le complessità di un sistema già abbastanza ingessato e fonte di numerosi conflitti, senza tutelare il buon funzionamento delle autonomie locali.
Non servono nuove forme di specialità (già quelle esistenti sono ben poco digeribili), ma interventi mirati, organici – anche con qualche aggiustamento costituzionale chirurgico – e, soprattutto, occorre monitorare le riforme dall’inizio del percorso sino alla fine, con lo scopo di aumentare l’accountability dei governanti locali nei confronti dell’elettorato su tutto il territorio nazionale. Perché le prove di forza lasciano il tempo che trovano, ma i pasticci restano.
Twitter @frabruno88