Non usateci come scusa per abbassare l’età della pensione

scritto da il 02 Ottobre 2017

Da gennaio 2018 l’età pensionabile di uomini e donne verrà unificata a 66 anni e 7 mesi. Una notizia che non desta sorprese, in quanto l’unificazione di genere dell’età per la pensione di vecchiaia era già prevista dalla riforma Fornero e varata nel decreto “Salva Italia”. Nei prossimi anni è inoltre previsto un progressivo aumento dell’età pensionabile a 67 anni nel 2019, 67 anni e 3 mesi nel 2021 e di lì in avanti un aumento di 2 mesi ogni due anni, in modo tale da adeguare l’età pensionabile alla crescente aspettativa di vita.  Come sempre accade in questi casi, una parte del mondo della politica si unisce a quello dei sindacati per alzare un forte coro di protesta.

Da Maurizio Landini a Susanna Camusso, da Salvini al Movimento 5 Stelle, il coro sembra essere unico: no all’aumento dell’età pensionabile, in modo – si dice – da garantire il diritto a trascorrere una serena pensione e favorire il ricambio generazionale sul mercato del lavoro. Dal momento che l’Italia è uno dei paesi europei con il tasso di disoccupazione giovanile più alto d’Europa, la seconda argomentazione trova grande consenso: è comune infatti l’idea per cui più tardi gli anziani si ritirano dal mercato del lavoro, più tardi i giovani ci entreranno, come in una sorta di scambio generazionale. Ma ad una più approfondita analisi economica questa tesi non sembra reggere.

La lump of labor fallacy
Partiamo da una considerazione semplice: non è detto che diminuendo i posti di lavoro degli anziani si aumentino strutturalmente quelli dei giovani. Questa credenza è conosciuta come “lump of labor fallacy”. A supporto di questa idea, se osserviamo i Paesi OCSE, notiamo che laddove la disoccupazione nella fascia 55-64 è più bassa, è più bassa anche quella nella fascia 15-24.

Figura 1 Tasso di disoccupazione nei Paesi OCSE

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Fonte: OCSE

Inoltre, sarebbe sbagliato pensare di “sostituire” lavoratori anziani con lavoratori giovani: un lavoratore anziano  e uno giovane non rappresentano infatti input produttivi perfettamente intercambiabili. Le competenze delle due fasce di età sono diverse, il livello di esperienza è diverso e così anche la produttività: di conseguenza anche le mansioni loro affidate all’interno di una azienda non possono essere le stesse. Secondo alcune ricerche, lavoratori giovani e lavoratori anziani devono essere visti come complementari, non come sostituti.

D’altra parte se invece del lungo periodo consideriamo intervalli di tempo più limitati, la regola della lump of labor potrebbe avere qualche riscontro. Le aziende infatti, di fronte a variazioni repentine dell’offerta di lavoro della fascia più anziana, si troverebbero spiazzate e non potrebbero adeguare i propri organici come programmato, con effetti negativi sulle possibilità occupazionali dei più giovani. Qualcosa del genere è avvenuto in Italia negli ultimi anni.

La situazione italiana
La situazione del nostro Paese presenta infatti delle peculiarità. Il quadro normativo ha conosciuto un cambiamento radicale nel 2011. Con la Riforma Fornero il sistema previdenziale è divenuto completamente contributivo, cioè basato sui contributi versati e l’età pensionistica è stata innalzata. Questo è accaduto in un momento di recessione e poi stagnazione del sistema economico, aspetto che influisce sull’”effetto lump of labor”.

La Riforma Fornero ha certamente avuto degli effetti visibili sul mercato del lavoro: la quota di individui occupati ed in cerca di lavoro tra i 55 ed i 64 anni è cresciuta dal 39 per cento del 2011 a più del 50 per cento dell’anno scorso.

Il confronto tra i tassi di occupazione delle varie fasce di età (Figura 2) ci dice ancora di più: le due classi che hanno subito la variazione maggiore  negli ultimi anni sono proprio i giovanissimi (15-24) e i più anziani (55-64), che hanno subito l’aumento dell’età pensionabile. Molti commentatori spiegano l’aumento di occupati nella fascia 55-64 proprio con la riforma delle pensioni e non con lo sbandierato effetto Jobs Act.

Figura 2Tassi di occupazione per fasce di età 

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Fonte: ISTAT

Siamo perciò di fronte a un cambio repentino di offerta di lavoro da parte dei lavoratori maturi, dovuto alla rigidità delle nuove regole introdotte dal 2011, il che ha probabilmente prodotto effetti negativi sulle possibilità occupazionali dei più giovani. Un paper del 2016 di Boeri, Garibaldi e Moen suggerisce che circa un quarto del calo delle assunzioni di giovani tra il 2008 ed il 2014 sia stato dovuto proprio alla rapidità dell’innalzamento dei requisiti pensionistici. Proprio per questo sarebbe stata necessaria maggiore gradualità: non solo per agevolare i lavoratori prossimi alla pensione, ma anche per evitare effetti negativi sull’occupazione giovanile.

Ma la rigidità del sistema nel breve periodo non basta a spiegare il verificarsi parziale della lump of labor. Infatti, come accennato, un sistema economico se in crescita può accrescere la ricchezza degli individui, anche in termini di posti di lavoro. Tuttavia il nostro Paese ha conosciuto anni di stagnazione economica e solo recentemente è tornato a crescere.

Marco Bertoni e Giorgio Brunello, in uno studio pubblicato recentemente e riassunto su lavoce.info, dimostrano che in un periodo di assente o bassa crescita economica l’aumento dei requisiti anagrafici per raggiungere la pensione può provocare perdite significative di posti di lavoro tra i giovani, non compensate nemmeno dall’aumento occupazionale dei più anziani. Ma se invece prendiamo in considerazione un periodo più lungo, caratterizzato da una maggiore crescita, il saldo occupazionale sarà positivo.

Tenere dritta la barra in futuro
Quali idee dunque per il futuro del nostro sistema pensionistico e per i giovani lavoratori del nostro Paese? Offrire maggiore lavoro ai giovani non pare essere un motivo sufficiente per abbassare l’età pensionabile ma allo stesso tempo non possiamo ignorare gli effetti negativi che si sviluppano nel mercato del lavoro nel breve periodo ed in assenza di crescita economica. Ponendoci in una logica di lungo periodo occorre tenere dritta la barra del timone ed evitare sterzate o, peggio, retromarce dettate da calcoli elettorali di corto respiro.

Innanzitutto, come sostenuto da Tito Boeri e confermato dalla ragioneria dello Stato nel report sulle pensioni “Tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio sanitario”, l’abolizione dell’indicizzazione dell’età pensionistica alle aspettative di vita, ventilata da alcune forze politiche, potrebbe mettere a repentaglio la sostenibilità del sistema pensionistico e del nostro debito pubblico. D’altra parte la gradualità e la certezza garantite dall’adeguamento automatico servono proprio a neutralizzare gli effetti negativi dell’aumento dell’età pensionistica sull’occupazione giovanile.

Allo stesso tempo è bene che il sistema di previdenza conferisca ai lavoratori più libertà e flessibilità rendendo la scelta neutra sul piano attuariale: ridurre il livello delle pensioni di chi esce dal mercato del lavoro prima dell’età normale di pensionamento avrebbe, ad esempio, incoraggiato l’uscita dalle imprese dei più anziani e meno produttivi. Positive sono dunque misure come l’APE volontario, implementato recentemente dal Governo.

Non vi è dubbio che fino all’approvazione della legge di stabilità l’abolizione dell’aumento automatico dell’età pensionabile rimarrà all’ordine del giorno nel dibattito politico. I proponenti scommettono su questa misura per agevolare l’accesso dei giovani nel mercato del lavoro: una scommessa che guarda tuttavia solo al breve periodo e con effetti negativi su crescita e debito pubblico. Che, guarda caso, saranno proprio i più giovani a ripagare.

Twitter @Tortugaecon