categoria: Sistema solare
La Brexit vista da Oslo, Reykjavik e Vaduz: Londra e Bruxelles prendono appunti
“Pensate che grande prospettiva. Un mercato unico senza barriere – visibili o invisibili – che garantisce accesso diretto e rapido al potere d’acquisto di oltre 300 milioni di persone tra le più ricche e prospere del mondo. Un mercato unico più grande del Giappone. Più grande degli Stati Uniti. A portata di mano. E con il tunnel della Manica pronto a garantivi un accesso diretto. Non è un sogno. Non è una visione. Non è un piano burocratico. È tutto semplicemente vero. Ed è solo a cinque anni di distanza da noi. […] Noi [britannici] abbiamo capito che se l’Europa doveva essere qualcosa in più di un semplice slogan dovevamo garantirgli delle basi giuste e solide. Ciò significava azione. Azione per abolire le barriere. Azione per consentire alle compagnie di assicurazione di operare in tutta la Comunità. Azione per consentire alle persone di esercitare liberamente i propri mestieri e professioni in tutta la Comunità. Azione per rimuovere le barriere doganali e le formalità in modo che le merci possano circolare liberamente e senza ritardo. Azione per assicurarsi che qualsiasi azienda possa vendere i propri beni e servizi senza alcun ostacolo. Azione per garantire la libera circolazione dei capitali in tutta la Comunità. Tutto questo è ciò che l’Europa è ora impegnata a fare”.
(Margaret Thatcher, “discorso per la campagna a favore del mercato unico”, 18 aprile 1988)
Giovedì 14 Settembre il presidente della Corte di giustizia dell’Associazione europea di libero scambio (in inglese, European Free Trade Association, EFTA), Carl Baudenbacher, introdurrà ad un platea di specialisti legali britannici le sue idee sulla Brexit. Invitato da Chatham House, uno dei più influenti think-tank al mondo, il giudice svizzero spiegherà ai presenti l’importante ruolo della corte di giustizia EFTA, la sua relazione con la Corte di giustizia europea e molti degli aspetti positivi e negativi di un eventuale passaggio di Londra, da una Corte all’altra.
L’Associazione europea di libero scambio (d’ora in poi, EFTA) venne fondata il 3 maggio 1960 a seguito della Convezione di Stoccolma. Per cercare di bilanciare il crescente potere politico di Bruxelles, i governi di Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Regno Unito, Svezia e Svizzera decisero di creare questa organizzazione intergovernativa per promuovere il libero scambio, come principale motore di crescita economica, sia in Europa che nel resto del mondo. Nel 1961, la Finlandia entrò a far parte di questo ristretto club. La decisione di Helsinki fu seguita dall’Islanda nel 1970 e dal Liechtenstein nel 1991. Nel 1973 il Regno Unito e la Danimarca abbandonarono l’EFTA per entrare nella Comunità Europea mentre il Portogallo si allontanò dall’associazione nel 1986. Infine, Austria, Finlandia e Svezia divennero membri dell’Unione Europea a partire dal 1995. Ad oggi, quindi, l’EFTA è rappresentata solamente da Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera. Di queste quattro nazioni le prime tre fanno anche parte dello spazio economico europeo (in inglese, European Economic Area, EEA). Al contrario le relazioni commerciali tra Svizzera ed Unione Europea vengono costantemente aggiornate attraverso una sostanziale revisione degli oltre cento accordi bilaterali che regolano i rapporti tra le due economie.
Lo spazio economico europeo (EEA), la cui intesa fu siglata a Porto il 2 Maggio 1992, entrò ufficialmente in vigore il 1 gennaio 1994. Nel corso di questi ultimi due decenni i paesi dell’EEA (accordo definito in modo informale “modello alla norvegese”) hanno potuto godere dei vantaggi del mercato unico, pur rimanendo fuori dall’Unione doganale europea. Se da un lato ci sono alcuni aspetti che possono far storcere il naso al Regno Unito, dall’altro un accordo in stile “Norvegia” permetterebbe all’intero settore finanziario britannico di ridurre al minimo l’eventuale impatto negativo di un’uscita dall’Unione Europea immediata e poco ordinata. Come scrive John Armour, professore di legge presso l’Università di Oxford, in un paper pubblicato pochi mesi fa, “questa opzione comporterebbe un basso rischio di perdite per la City, in quanto consentirebbe alle imprese finanziarie con sede a Londra di continuare a contare sui diritti di passaporto bancario”. Anche nel caso in cui Londra voglia – nel lungo periodo – allontanarsi definitivamente da Bruxelles, l’opzione norvegese rimane comunque un’ottima soluzione temporanea.
Visti i forti rapporti bilaterali tra Regno Unito ed Italia, un mancato accordo tra Londra e Bruxelles sarebbe poco vantaggioso per la nostra economia. Come riporta l’Observatory of Economic Complexity (OEC) del Massachusetts Institute of Technology (MIT), nel 2015 le aziende italiane hanno esportato beni e servizi nel Regno Unito per circa 24,6 miliardi di dollari (22,1 miliardi di euro), pari al 5,5% delle esportazioni totali. Un accordo “alla norvegese”, anche se temporaneo, sarebbe una vittoria per tutte quelle aziende nostrane che operano nel Regno Unito. Infatti, con un interscambio commerciale in costante crescita e pari, nel 2016, a 33,5 miliardi di euro, l’Italia si posiziona al settimo posto tra i paesi fornitori del Regno Unito, mentre rappresenta il decimo mercato di sbocco per le esportazioni britanniche. Al contrario, un’uscita non ordinata dall’Unione Europea da parte del Regno Unito rischierebbe di mettere in difficoltà molte piccolo e medie imprese italiane. Un discorso simile può essere fatto per tutti gli altri paesi membri dell’Unione. La recente storia delle sanzioni commerciali contro la Russia evidenzia molto bene questo aspetto, visto che tra il 2014 ed il 2016 l’interscambio tra Mosca ed i 28 paesi membri è crollato del 33%. È facile quindi immaginare che un pessimo accordo con il Regno Unito (o, ancora peggio, un non accordo) possa generare riperscussioni commerciali negative similari.
Di conseguenza, un accordo “alla norvegese” farebbe comodo sia a Londra che a Bruxelles. Da un lato il Regno Unito potrebbe evitare di istituire controlli doganali particolarmente severi al confine irlandese e riuscirebbe ad allontanarsi dal concetto di “unione sempre più stretta” sancito dal preambolo del trattato di Roma del 1957. Dall’altro lato, invece, le istituzioni dell’Unione potrebbero usare un accordo del genere come deterrente per tutti quei paesi che, in futuro, vogliano abbandonare il progetto europeo. Nel caso di un accordo “alla norvegese”, il Regno Unito continuerebbe a contribuire, anche se in modo minore, al budget europeo e perderebbe parte del potere politico attuale all’interno dell’Unione. Per quanto invece riguarda la libera circolazione delle persone i tre paesi EEA fanno parte dell’area Schengen. Importante però sottolineare come questa decisione non sia stata imposta da Bruxelles.
Come previsto dai trattati EEA, la Norvegia ha accettato di garantire finanziamenti per ridurre le disparità sociali ed economiche all’interno dell’Unione Europea. Per l’attuale periodo di finanziamento (2014-2020) l’Islanda, il Liechtenstein e la Norvegia hanno stanziato un totale di 2.8 miliardi di euro. Questi finanziamenti vengono concordati con Bruxelles ogni 5 anni e vengono esclusivamente utilizzati per finanziare progetti nei paesi meno sviluppati dell’Unione. Inoltre, come previsto dagli accordi in vigore, pur non avendo un vero e proprio diritto di voto a livello comunitario, la Norvegia può comunque influenzare le decisioni prese dal cosiddetto “EEA Joint Committee”, istituzione che decide quali leggi europee incorporare a livello EEA. A livello internazionale Norvegia, Liechtenstein ed Islanda possono dialogare in modo totalmente indipendente con tutte le altre nazioni.
Un accordo “alla norvegese” farebbe comodo anche alle istituzioni europee. Londra rimarrebbe il principale centro finanziario dell’intera Unione e, come emerge dalle recenti discussioni riguardanti il mercato del clearing sui derivati in euro, questa soluzione non dispiacerebbe affatto alla Commissione Europea. Come scrive bene Matthew Campbell su Bloomberg Businessweek, visti gli attuali vantaggi comparati rispetto alle altre città europee, Londra continuerà ad essere uno dei centri finanziari più importanti del mondo. Amsterdam, Bruxelles, Città del Lussemburgo, Dublino, Francoforte, Milano o Parigi non hanno le capacità della City.
Visto il recente stallo delle negoziazioni, è quindi normale che, nel corso di queste ultime settimane, diversi politici britannici ed alcuni funzionari della Commissione Europea abbiano lasciato intuire che un accordo in stile Norvegia sia per il Regno Unito qualcosa di più che una semplice opzione commerciale. Nonostante le forti prese di posizione da entrambe le parti, tutti sono consapevoli del fatto che un’uscita disordinata dall’Unione Europea rischi di indebolire inutilmente sia Londra che Bruxelles.
La Norvegia, in quanto membro della EEA, applica pienamente i cosiddetti “diritti comunitari acquisiti” (acquis communautaire) dell’Unione. In altre parole, Oslo deve rispettare il corpo legislativo inerente alle quattro libertà (libera circolazione di capitali, merci, servizi e persone) insieme a quello pertinente alle politiche di accompagnamento (vale a dire, ad esempio, leggi comunitarie riguardanti i trasporti, la concorrenza, la politica sociale, la protezione dei consumatori, l’ambiente, le statistiche e la legge sulle società). L’accordo EEA non riguarda però molte delle politiche principali dell’Unione Europea, come la politica agricola comune, la politica comune della pesca, la politica commerciale comune, la politica estera, la politica di sicurezza comune, la giustizia e gli affari interni, la tassazione comunitaria diretta ed indiretta e buona parte della legislazione relativa all’unione economica e monetaria.
È giusto inoltre notare che, in qualità di membro EFTA, la Norvegia può concludere liberamente accordi commerciali bilaterali o multilaterali nell’ambito del quadro convenzionale EEA-EFTA. Ciò significa che, ad oggi, la Norvegia può negoziare accordi di libero scambio con paesi terzi senza che vi sia alcuna interferenza da parte di Bruxelles. Questi accordi speciali hanno permesso ad Oslo di mantenere stretti legami con tutti i paesi membri dell’Unione e di trarre grande profitto dalle opportunità globali, senza venire negativamente influenzati dalle decisioni di parlamenti regionali, come quello della Vallonia.
Come riporta la più recente pubblicazione apparsa sul sito ufficiale dei paesi EFTA, Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera hanno raggiunto accordi di libero scambio con 38 paesi e stanno promuovendo ulteriori negoziazioni con altre importanti economie emergenti come l’India, l’Indonesia e la Malesia. Mentre l’Unione Europea, spinta dalle pressioni di Emmanuel Macron, cerca di promuovere politiche protezioniste nei confronti della Cina, l’Islanda è stata il primo paese europeo a raggiungere un vero e proprio accordo commerciale con Pechino. Di conseguenza, è interessante constatare come il Regno Unito, paese che ha dato i natali ad Adam Smith, David Ricardo, Richard Cobden e John Bright, voglia tornare ad avere una maggiore voce in capitolo in termini di commercio internazionale. Le dichiarazioni di lunedì di Liam Fox, segretario di stato per il commercio internazionale, relative al fatto che “al momento il governo britannico non ha le capacità necessarie per negoziare nuovi accordi commerciali” possono essere interpretate come ulteriore conferma che il Regno Unito si stia orientando verso una posizione pro-EEA.
Infine, per coloro che sono interessati agli aspetti legali, è giusto sottolineare che, per gestire il complesso rapporto tra gli stati EFTA e l’Unione, è stato creato un insieme di organismi congiunti. Questi organismi sono regolamentati da un doppio sistema che permette alla Corte EFTA di mantenere un discreto livello di indipendenza. Ad esempio, stando a stime recenti del governo islandese, dal 2004 al 2015, Reykjavik ha adottato solo il 10% delle regole comunitarie.
Come ha chiaramente spiegato il ministro degli esteri islandese, Gudlaugur Thor Thordarson, ai microfoni della BBC, martedì 5 settembre: “Tutti vogliono commerciare con il Regno Unito. Tutti vogliono esportare i propri prodotti verso la quinta economia più grande al mondo. La realtà dei fatti è questa ed è molto semplice da capire. […] Il Regno Unito dovrebbe entrare a far parte dell’EFTA ed accordarsi sulla base di un modello “alla norvegese”. Noi saremmo contenti di questa soluzione. […] È molto importante trovare una soluzione al più presto perché una qualsiasi restrizione commerciale a livello europeo equivarebbere ad un grosso passo falso”.
Twitter @cac_giovanni