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Le conseguenze dell’embargo contro la Russia
Pubblichiamo un post di Andrea Festa, dottore di ricerca in economia e funzionario pubblico, è autore di pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali. I suoi interessi si concentrano prevalentemente su tematiche di economia, politica fiscale e internazionale. Collabora con lavoce.info –
A distanza di tre anni dalla crisi ucraina è possibile tracciare un bilancio economico, ma soprattutto politico, delle restrizioni commerciali tra Unione europea e Federazione Russa.
Le relazioni tra Unione europea e Russia attraversano uno dei momenti più critici della storia recente. Com’è noto, da marzo 2014 l’Unione europea ha dato il via a una serie di misure restrittive, di molteplice natura e arricchitesi nel tempo, nei confronti della Russia. Tali decisioni sono state prese in risposta all’invasione da parte di quest’ultima dell’Ucraina, a seguito della quale vi è stata la sostanziale annessione dei territori della Crimea, inclusa Sebastopoli.
All’iniziale misura diplomatica presa dai Paesi occidentali più sviluppati – cristallizzata con l’esclusione della Russia dal G8 da ormai oltre tre anni – sono seguite altre misure che si sono via via inasprite soprattutto da quando sono stati disattesi gli accordi di Minsk del 2015, che all’epoca avevano acceso qualche speranza che il conflitto potesse ricomporsi a livello diplomatico piuttosto che mediante l’uso della forza.
Di conseguenza, attualmente è in vigore un embargo che riguarda sia il congelamento di beni di oltre un centinaio di esponenti dell’élite politica, imprenditoriale e militare russa, sia restrizioni sugli scambi commerciali con la Russia, la Crimea e Sebastopoli. In particolare, sono state introdotte limitazioni finanziare all’accesso ai mercati dei capitali UE per alcuni istituti finanziari e società russe, un divieto di scambi commerciali con la Russia e i territori annessi in materia di armi e prodotti a duplice uso, ovvero merci atte ad essere utilizzate sia in campo civile che in quello militare, il divieto di esportazione di tecnologia upstream utilizzabile dalla Russia, un divieto generalizzato di importazioni dai territori della Crimea e Sebastopoli e ulteriori restrizioni agli scambi commerciali e agli investimenti in questi territori da parte di imprese residenti in Unione europea.
L’obiettivo prioritario dell’Unione europea era, mediante queste sanzioni, di indurre la Federazione russa a modificare radicalmente l’approccio alla crisi ucraina, al fine di garantire la stabilità del comune vicino e impedire modifiche agli equilibri geopolitici della regione con l’uso della forza. A distanza di tre anni, appare quindi opportuno analizzare i costi e i benefici della strategia europea di contenimento della Russia nella frontiera a est, al fine di trarre un giudizio complessivo sull’efficacia della politica UE in materia dal punto di vista economico e politico.
A livello economico, le sanzioni decise dall’Unione europea hanno senz’altro raggiunto l’obiettivo di danneggiare l’economia russa. Secondo i dati Eurostat, infatti, l’interscambio commerciale dell’UE con la Russia si è quasi dimezzato, scendendo dagli oltre 338 miliardi di euro del 2013 ai circa 191 miliardi del 2016. Inoltre la Russia, a seguito dell’applicazione delle sanzioni e al quasi concomitante crollo dei prezzi del petrolio, è entrata in una fase di recessione che ha visto registrare una contrazione del PIL per due anni, una caduta della domanda domestica e del reddito disponibile, una crescita in doppia cifra dell’inflazione e un incremento del tasso di povertà che vede circa il 13% della popolazione sotto il livello di sussistenza. La recessione ha mostrato i suoi effetti anche nel settore finanziario, con il deprezzamento del rublo e la fuga di capitali nonché di investimenti dal Paese.
A fronte delle restrizioni occidentali, la Federazione Russa ha messo in campo una serie di contro-sanzioni per colpire l’economia degli stati promotori delle misure contro di essa. Di conseguenza, dall’agosto 2014, la Russia ha decretato il divieto di importare una vasta gamma di prodotti agroalimentari dall’Unione Europea, dagli USA nonché da Canada, Australia e Norvegia. Si deve anche a queste contro-sanzioni la drastica riduzione dell’interscambio UE-Russia. Oltre alle contro-sanzioni, l’UE si è assunta anche il rischio di un possibile boicottaggio nella fornitura di energia da parte della Russia. Tuttavia, questo mercato è caratterizzato da una reciproca dipendenza domanda-offerta che ne ha scongiurato nel concreto l’attuazione e che rappresenta la cartina di tornasole dell’interdipendenza UE-Russia esistente in materia di energia, commercio e investimenti.
Peraltro, tra i Paesi più danneggiati dalla diatriba tra UE e Russia c’è proprio l’Italia. Il nostro Paese è tuttora il sesto partner commerciale della Russia sia all’import che all’export, mentre in Unione Europea è secondo dietro alla Germania. In questi anni l’Italia ha sopportato elevati danni commerciali. L’interscambio con la Russia è passato dai 26 miliardi di euro del 2014 ai 17,4 del 2016. All’export, i settori maggiormente esposti alle restrizioni commerciali sono stati l’agroalimentare, i macchinari e i segmenti ad elevato contenuto tecnologico in cui le aziende italiane agiscono in qualità di abituali partner commerciali degli operatori russi. All’import, invece, il calo maggiore si è registrato nel settore minerario e dei combustibili, soprattutto a causa del crollo dei prezzi degli idrocarburi. Tuttavia, ultimamente si è assistito a un cambio di tendenza. Infatti, nel periodo gennaio-aprile 2017 l’interscambio Italia-Russia è cresciuto di circa un miliardo rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, sebbene sia ancora lontano dai livelli pre-crisi.
L’inversione di tendenza va inquadrata in un contesto macroeconomico più ampio che ha visto crescere il commercio e il PIL globale al termine del 2016, la cui onda lunga ha incluso anche la Russia. Il Paese, dopo aver sperimentato la fase più profonda della recessione nella prima parte del 2016, ne è gradualmente uscito ritornando a una moderata crescita, non ancora supportata da un aumento degli investimenti. Ciò è stato favorito dall’aumento dei prezzi degli idrocarburi e dall’incremento delle esportazioni trainate dal rublo debole, oltre che da una certa stabilizzazione dei parametri economici domestici. Naturalmente, nonostante l’uscita dalla recessione, l’economia russa presenta tuttora diverse debolezze strutturali, come la forte dipendenza dal mercato degli idrocarburi, la crescita delle diseguaglianze nella popolazione, la corruzione, la bassa produttività. Ma appare comunque chiaro che le restrizioni commerciali, pur avendo contribuito alla sua recessione, non hanno raggiunto lo scopo primario di indurre il Cremlino a ripensare la propria azione in Ucraina secondo linee di condotta più rispondenti alle esigenze occidentali.
Le ragioni di tale inefficacia vanno oltre il fattore economico e coinvolgono quello politico, poiché è stata innanzitutto la divisione politica all’interno dell’Unione europea nell’approccio con la Russia a ridurre l’efficacia persuasiva delle restrizioni. In effetti, all’indomani della crisi ucraina, stati membri come Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Finlandia si sono mostrati per varie ragioni restii a intraprendere la strada delle sanzioni. Sul punto, non meno grave appare lo smarcamento della Serbia, ovvero di un Paese che gode dello status di candidato ufficiale all’entrata nell’UE, rispetto alla posizione europea nei confronti dell’azione russa nella frontiera a est dell’Unione. D’altronde, anche in passato l’UE si è dimostrata ondivaga se non riluttante ad agire contro la Russia. E’ il caso ad esempio delle crisi in Georgia e nelle regioni della Transnistria e dell’Abcasia.
Le divisioni politiche appaiono il vero fattore che ha indirizzato la vicenda e minato la credibilità della risposta europea alla crisi ucraina. Inoltre, mentre l’Europa si mostrava poco compatta, in Russia si è osservato un paradossale rafforzamento della leadership politica. In particolare, le sanzioni anziché essere viste come la legittima risposta occidentale a un élite politica con ambizioni geopolitiche indesiderabili e destabilizzanti, sono state vissute dalla popolazione russa con senso di ingiustizia. Di conseguenza, invece di prendere le distanze dai propri governanti, la popolazione sembra aver accettato i sacrifici. In questo quadro, merita una menzione a parte l’Unione Economica Eurasiatica promossa dalla Russia e che include Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kyrgyzstan con l’intenzione di ricostituire sotto la bandiera di Mosca lo spazio post-sovietico, solleticando il sentimento nazionalista all’interno del Paese. Un’Unione nata secondo logiche simili a quella dell’Unione Europea, ma in concorrenza con quest’ultima lungo la comune frontiera, prova ne sia l’ostilità della Russia all’Accordo di associazione Ue-Ucraina, ratificato lo scorso luglio dal Consiglio europeo, la cui mancata firma nel 2013 da parte dell’allora presidente Ucraino, Yanukovich, fece precipitare la situazione del Paese.
In definitiva, le relazioni UE-Russia si trascinano in una fase di stallo da oltre tre anni ed è difficile prevedere quando si potranno riprendere forme di collaborazione mutualmente convenienti. A livello politico, perlomeno sulla crisi ucraina, le posizioni sono troppo distanti per pronosticare una distensione dei rapporti a breve termine. Malgrado ciò, forme di distensione potrebbero essere favorite in alcuni campi da interessi convergenti – come auspicato nel marzo 2016 dal Consiglio “Affari esteri” dell’UE – i quali ad esempio spingono per una ripresa di normali relazioni commerciali, dal momento che l’applicazione di restrizioni tra economie complementari ha creato un meccanismo lose-lose in cui figurano solo sconfitti.
Twitter @andreafesta_af
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