L’Italia continua a non credere negli investimenti in istruzione. Perché?

scritto da il 18 Agosto 2017

Pubblichiamo un post di Fedele De Novellis, partner ed economista senior di REF Ricerche

Fra gli spunti offerti dal dibattito estivo vi è l’avvio di una sperimentazione finalizzata alla riduzione a quattro del numero di anni della scuola superiore. Un aspetto che colpisce è che una proposta di questo genere sia stata accolta in maniera abbastanza positiva da parte dell’opinione pubblica. Sono frequenti gli argomenti che sottolineano l’esigenza di un più rapido ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e che tendono a ridimensionare il ruolo positivo sui percorsi di carriera individuali che possono derivare da un anno aggiuntivo di istruzione. In termini più semplici, salvo che per pochi studenti più capaci, oltre un certo numero di anni il tempo trascorso sui banchi di scuola sarebbe uno spreco.

Eppure questo tipo di argomentazioni va in direzione contraria rispetto a quanto in genere ritengono gli economisti, ovvero che l’investimento in istruzione produca rendimenti positivi e relativamente elevati tanto per chi beneficia direttamente di tale investimento, che per l’economia più in generale: un maggiore livello d’istruzione dovrebbe sortire effetti positivi sulla crescita dell’intero sistema e, per questa via, produrre migliori opportunità per tutti. Se i benefici della maggiore istruzione non sono tratti solo da chi si istruisce, allora ha senso pensare alla scuola come luogo di produzione di un bene pubblico, offerto dallo Stato e a carico della fiscalità generale. Ed è per questo che dobbiamo preoccuparci per quanti nei prossimi anni studieranno un anno in meno cagionando, in tal modo, un danno a ciascuno di noi.

D’altra parte, ha anche senso chiedersi perché in Italia il grado di fiducia sugli esiti degli investimenti in istruzione si sia così tanto deteriorato. È vero che in realtà le analisi sul tema tendono a mostrare che, pur positivo, nel nostro paese tale rendimento è comunque inferiore a quello che si riscontra nelle altre economie avanzate. Inoltre, nel corso degli anni della crisi, i titoli di studio sembrano avere avuto certamente un ruolo protettivo per i lavoratori più istruiti, riducendone la probabilità di disoccupazione. Ma è anche vero che non sempre i lavoratori hanno ottenuto percorsi di carriera soddisfacenti.

È ad esempio frequente il fenomeno cosiddetto dell’overeducation, ovvero il fatto che chi ha studiato trova poi un’occupazione per la quale non sono richiesti i titoli di studio che ha conseguito. Per i laureati giovani i casi di sovraistruzione superano il 40 per cento.

Questo comporta che le competenze scolastiche non vengono valorizzate nel mercato del lavoro, comportando una progressiva perdita delle conoscenze acquisite durante il percorso scolastico.

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Non è chiaro in che misura questo fenomeno rifletta le caratteristiche dell’offerta piuttosto che quelle della domanda di lavoro. È possibile difatti che il nostro sistema scolastico non sia sempre all’altezza, e che questo renda più difficile la transizione dalla scuola al mondo del lavoro.

Certamente conta anche la struttura della domanda: complice la crisi degli ultimi dieci anni, è possibile che il nostro sistema produttivo non manifesti fabbisogni di professionalità elevate tali da giustificare gli investimenti, in termini di impegno nello studio e risorse finanziarie, effettuati dagli studenti e dalle loro famiglie. È noto che un sistema di imprese piccole e specializzate in settori più tradizionali tenda a investire meno in acquisizione di capitale umano, ma sappiamo anche che questo è uno dei più gravi limiti del nostro sistema, che le politiche economiche non dovrebbero assecondare, ma anzi contrastare con forza.

Purtroppo l’impressione è che invece gli sforzi in questa direzione siano ancora modesti. Pesano anche i limiti dal punto di vista delle risorse finanziarie. Negli ultimi anni le pressioni sul bilancio pubblico hanno frequentemente portato a penalizzare proprio le voci della spesa pubblica che hanno un maggiore impatto sulla crescita. È ad esempio il caso degli investimenti pubblici o delle spese in ricerca e sviluppo.

Particolarmente penalizzata è stata proprio la spesa per l’istruzione, che in Italia non solo è tra le più basse d’Europa, ma costituisce praticamente uno dei pochi casi in Europa di contrazione in valore assoluto nell’ultimo decennio. Gli altri casi sono la Grecia e il Portogallo. In tutti gli altri paesi dell’area euro a 12, nonostante le difficoltà dei bilanci pubblici, la crescita della spesa in istruzione non si è mai interrotta.

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Vi è allora il concreto timore che gli orientamenti in tema di istruzione possano essere guidati più dal rendimento politico della spesa pubblica che dalla sua importanza nei processi di sviluppo. Ma nel lungo periodo questa scelta è miope anche dal punto di vista del ritorno elettorale. La tendenza a fare cassa riducendo la spesa in istruzione potrà forse aiutare a creare gli spazi per altre voci di spesa nel breve periodo, ma avrà effetti negativi sulla crescita nel medio termine e, in definitiva, ci farà stare tutti peggio.

Twitter @fdenovellis1 @REFRicerche