Gli Stati Uniti, la Cina e la nuova geometria del potere

scritto da il 28 Aprile 2025

Post di Thomas Avolio, Deputy CEO di RedFish Listing Partners – 

Nel corso della storia, gli imperi hanno imparato a caro prezzo quanto possa essere oneroso e logorante assumere il ruolo di egemone globale. Essere un impero significa diventare il compratore di ultima istanza, mettere la propria valuta al centro del sistema economico e finanziario internazionale, usata come riserva globale, fare la Guerra. In cambio si gode dei privilegi del signoraggio e della possibilità di emettere debito stampando moneta.

Ma essere impero significa anche sacrificare la propria industria, delocalizzando la produzione all’estero per favorire le importazioni, creando dipendenza economica nei clientes. Questo modello ha accomunato tutti i grandi imperi del passato: dagli Olandesi agli Spagnoli, dagli Inglesi fino ai Romani. Gli Stati Uniti non fanno eccezione. La loro bilancia commerciale è strutturalmente in deficit, perché la loro principale “esportazione” è il dollaro. E da Bretton Woods in poi, il valore del dollaro non è più garantito dall’oro, ma dalla forza del loro esercito e dalla stabilità delle istituzioni: in sostanza, dalla loro egemonia.

Una spaccatura tra le Coste e l’America Profonda

Negli ultimi anni, però, qualcosa è cambiato. L’America profonda – quella che ha eletto Donald Trump – ha iniziato a rendersi conto di non essere più disposta a sacrificare la propria manifattura in nome di un ordine globale sempre meno vantaggioso. Per decenni, l’industria statunitense è stata spostata all’estero in cerca di manodopera a basso costo, a vantaggio di prezzi più bassi per i consumatori. Ma oggi, quella stessa classe media impoverita chiede protezione. Ed è da qui che nasce la strategia trumpiana: erigere barriere, imporre dazi, scuotere l’ordine stabilito.

Quando Trump annunciò l’introduzione di dazi contro praticamente tutti i partner commerciali, in ufficio calò il gelo. Ma si trattava di una mossa negoziale ben calcolata: gli Stati Uniti, in quanto compratori di ultima istanza, cercano di usare il loro potere d’acquisto per ridurre un deficit commerciale sempre più insostenibile. Un deficit che, tra l’altro, alimenta i surplus di paesi come la Cina, surplus poi reinvestiti per modernizzare eserciti colmare gap geopolitico.

Il debito pubblico degli Stati Uniti ha raggiunto livelli storici, con una crescita esponenziale negli ultimi anni. Nel 2024, il debito federale ha superato i 35 trilioni di dollari, rappresentando circa il 122,3% del PIL nazionale. La sola spesa per gli interessi sul debito nel 2024 è stata di oltre 1 trilione di dollari, con un incremento del 30% rispetto all’anno precedente – tradotto, oltre 80 miliardi al mese solo in interessi sul debito. Gran parte di questo, circa 8 trilioni, dovrà essere rifinanziato nel corso dei prossimi 12 mesi. Ecco l’obiettivo primario dell’amministrazione Trump. Trovare dei compratori, a tutti i costi.

La sfida Stati Uniti – Cina

Negli ultimi decenni, gli Stati Uniti hanno sviluppato strumenti come dazi, sanzioni e soft power per evitare conflitti diretti e mantenere la propria egemonia. Il messaggio è chiaro: “Noi siamo il centro del sistema economico globale. Se volete che la globalizzazione continui a funzionare, comprate più prodotti americani, ma soprattutto finanziate il nostro debito pubblico acquistando titoli del Tesoro.”

Tuttavia, alzare barriere commerciali su vasta scala rischia di essere un boomerang. Chiudersi equivale ad auto-isolarsi. La retorica nazionalista non basta a mascherare le conseguenze: recessione, inflazione, incertezza nei piani industriali. Le imprese che operano su scala globale iniziano a vacillare, e l’egemonia americana si indebolisce ulteriormente.

Secondo alcune indiscrezioni, l’obiettivo strategico sottostante potrebbe essere quello di costruire un fronte comune per isolare la Cina. Una Cina che, partita trent’anni fa come semplice fabbrica del mondo, è oggi diventata un polo tecnologico, ecologico e industriale avanzato. La delocalizzazione, nata dalla ricerca di costi più bassi, si è trasformata in una dipendenza da un sistema produttivo cinese efficiente, competente e integrato lungo tutta la supply chain.

I dazi sono uno uno strumento politico, non tecnico

E mentre Washington agita l’arma dei dazi sulle importazioni cinesi in proporzioni che non hanno precedenti, il gesto fa emergere come il secondo mandato di Trump sia profondamento diverso dal primo – ideologico, non propagandistico. Noncurante del fatto che saranno imprese e consumatori americani a soffrire nel breve, ma fiducioso che in questo modo potrà ristrutturare il debito e impattare direttamente sulla curva a 10 anni dei tassi statunitensi.

I calcoli alla base dei dazi infatti, non seguono logiche economiche raffinate: sono volutamente rozzi, perché sono uno strumento politico, non tecnico. Gli Stati Uniti hanno acceso la miccia con dazi iniziali del 104%. Pechino ha risposto con contromisure del 125%. Washington ha rilanciato al 145%. Ma la Cina non cede, costruisce. Espande i propri scambi con il Sud globale. Riscrive le catene di approvvigionamento. Rende obsolete le multinazionali americane. Boeing è fuori dal mercato cinese. Pechino si è assicurata il dominio nella produzione e soprattutto nella lavorazione di materie prime critiche e terre rare, fondamentali per la transizione energetica e digitale. I sogni americani sui semiconduttori sono in stallo. Inoltre, la Cina possiede quasi un trilione di dollari in titoli del Tesoro Usa. Un’arma finanziaria che Washington spera non venga mai usata.

La Trappola di Giustiniano

Gli Stati Uniti hanno smantellato la propria base industriale per spingere la crescita attraverso la leva finanziaria, concentrandosi su prodotti e servizi ad alto valore aggiunto, sacrificando la manifattura della supply chain. Ma non si recuperano trent’anni di delocalizzazione con una conferenza stampa. Non si reindustrializza un impero con i proclami. E non si sfida una civiltà millenaria con i dazi, a meno che non si sia pronti a vedere la propria economia sanguinare. Infatti non è questo il vero obiettivo di Trump.

La Cina adotta strategie aggressive per conquistare quote di mercato globali, spesso accusate di essere politiche di dumping. Non si tratta solo di competere sul prezzo: lo Stato cinese interviene direttamente nell’economia, pianificando investimenti e sostenendo settori strategici con fondi pubblici, incentivi fiscali e accesso agevolato al credito. Attraverso la stampa di moneta e un controllo capillare del sistema bancario, Pechino è in grado di finanziare massicci piani industriali, sostenere aziende partecipate dallo Stato e guidare l’espansione globale delle sue imprese. Questo approccio garantisce alla Cina un vantaggio competitivo strutturale, difficilmente replicabile dalle economie occidentali basate sul libero mercato.

Ed è qui che si gioca la partita: indebolire la Cina rafforzando la cooperazione tra Vecchio continente e Usa, anche attraverso una riapertura alla Russia.

stati uniti

Una nuova geometria del potere

La strategia americana non mira tanto a vincere una guerra commerciale, quanto a ridisegnare gli equilibri di potere nel XXI secolo. In un mondo dove le catene del valore sono globali ma le alleanze sempre più fluide, l’obiettivo non è solo contenere la Cina, ma riallineare l’Occidente attorno a un asse di interessi condivisi. In questo contesto, anche una possibile riapertura alla Russia non appare più un tabù, ma una mossa tattica per spezzare l’intesa sino-russa e ricompattare il blocco euro-atlantico.

La sfida non sarà solo economica, ma culturale, politica, ideologica. E forse, più di tutto, temporale: chi saprà adattarsi più rapidamente al nuovo ordine globale, detterà le regole del gioco. Ma ogni mossa ha un prezzo. E gli imperi, come i numeri primi, restano soli. Irriducibili, indivisibili – ma anche fragili nella loro unicità.