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Il paradosso del dollaro: egemone per mancanza di alternative


Post di Giovanni Di Corato, Amministratore Delegato Amundi RE Italia SGR* –
Il ritorno dei dazi, l’annuncio di nuove barriere commerciali e il deterioramento delle relazioni multilaterali hanno riaperto una questione latente: il dollaro può ancora svolgere il ruolo di valuta di riserva globale? In un contesto segnato da inflazione persistente, tensioni politiche e indebitamento diffuso, il biglietto verde sembra meno solido di quanto non apparisse solo un anno fa. Ma sotto questa fragilità apparente si nascondono meccanismi strutturali che rendono la sua egemonia meno contestabile di quanto oggi la percezione comune – la dóxa – lasci intendere.
L’incrostazione sistemica del dollaro
Il primo punto da considerare è che il dollaro non è semplicemente una moneta, ma una piattaforma. È la valuta in cui sono denominati la maggior parte dei titoli del debito pubblico americano, una parte significativa del debito privato globale, le principali materie prime (a partire dal petrolio), i derivati finanziari e una quota rilevante dei contratti commerciali internazionali. Circa il 60% delle riserve valutarie delle banche centrali mondiali è ancora in dollari. E oltre il 40% dei pagamenti transfrontalieri registrati dal sistema SWIFT avviene in dollari. Questi dati non segnalano solo una predominanza quantitativa, ma un’incrostazione sistemica. Il mondo è fortemente “long” sul dollaro.
Questa piattaforma si regge, storicamente, sulla potenza americana. Non solo economica, ma tecnologica, finanziaria, normativa, militare. È l’egemonia statunitense che ha reso possibile l’universalizzazione del dollaro. Tuttavia, quella potenza è oggi in declino relativo: deficit strutturale, disordine fiscale, polarizzazione interna, perdita di centralità multilaterale, competizione strategica crescente con la Cina. L’economia americana resta dominante in settori chiave, ma la traiettoria di lungo periodo è meno netta, e più esposta.
L’economia globale è ostaggio del dollaro
E qui si manifesta il cuore del paradosso. Proprio mentre si affaccia il declino della potenza americana, si rafforza la dipendenza strutturale del resto del mondo dal dollaro. Non perché sia più forte, ma perché è diventato troppo grande, troppo interconnesso, troppo pervasivo per essere abbandonato. Il mondo intero — banche centrali, fondi sovrani, grandi imprese, risparmiatori istituzionali — è seduto su una massa di asset denominati in dollari. In questo senso, si può dire che l’economia globale è ostaggio del dollaro: nessuno ha interesse a metterne in discussione il valore, perché tutti rischierebbero perdite sistemiche.

Un dollaro troppo grande, troppo interconnesso, troppo pervasivo per essere abbandonato (Designed by Freepik)
La metafora dell’“ostaggio” qui va intesa non in senso emotivo, ma funzionale: il sistema è vincolato al dollaro non per convinzione, ma per necessità. Chi possiede asset in dollari – e sono moltissimi – ha un interesse diretto alla sua stabilità. Un deprezzamento brusco danneggerebbe non solo gli Stati Uniti, ma i loro principali creditori: Cina, Giappone, Europa, paesi esportatori di materie prime. Questo crea una convergenza di interessi tra potenza in declino e sistema dipendente. Ed è una forma paradossale di forza: il dollaro è troppo sistemico per essere dismesso, troppo fragile per essere sostituito, troppo radicato per essere aggirato.
Se il potere contrattuale non è sempre del creditore
Il secondo elemento riguarda la posizione finanziaria netta degli Stati Uniti. È noto che gli USA sono il Paese con il peggior saldo debitorio verso l’estero: i suoi debiti superano di molto i suoi crediti, e la posizione netta è negativa per circa il 70–80% del PIL. Tuttavia, qui occorre rovesciare lo sguardo. In teoria, un debitore così indebitato dovrebbe trovarsi in una posizione di debolezza. Ma in un sistema non coercitivo e privo di un’autorità centrale capace di esigere il saldo dei conti, vale una regola diversa: il potere contrattuale non è sempre del creditore.
Anzi, come insegna la teoria delle crisi del debito sovrano, quando un debitore è sistemico, il rischio maggiore ricade proprio su chi detiene i suoi titoli. La frase attribuita a varie fonti – “Se devo alla banca mille euro, ho un problema. Se le devo un miliardo, il problema è della banca” – si applica perfettamente al caso americano. Gli Stati Uniti sono troppo indebitati per essere ignorati, ma anche troppo grandi per essere lasciati cadere. Il loro default, anche solo simbolico, provocherebbe uno shock che nessun sistema finanziario può assorbire senza conseguenze. Questo rende il debito americano paradossalmente sicuro: perché nessuno può permettersi che venga messo in discussione.
Per gli Usa un rischio di solvibilità pressoché nullo
A differenza dei Paesi emergenti, che si indebitano spesso in valuta straniera, gli Stati Uniti si indebitano in una valuta che possono emettere. Il rischio di solvibilità è dunque pressoché nullo. E quello di convertibilità, come si è visto, è sistemicamente inibito. Il debito americano non è un fardello tecnico, ma un meccanismo di trasmissione del potere. Serve a finanziare il disavanzo commerciale, la spesa militare, l’innovazione tecnologica. E alimenta un ciclo in cui il resto del mondo finanzia l’America per continuare a dipendere dai suoi consumi, dalla sua sicurezza, dai suoi mercati.
La funzione di riserva del dollaro è messa alla prova, ma è molto meno indebolita di come molti pensano. E questo è il paradosso. Nel momento in cui la potenza americana vacilla, la funzione del dollaro si mostra ancora egemone. Non per forza, ma per vincolo. Non per fiducia, ma per mancanza di alternative.
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