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Settimana corta, dove può funzionare e le sfide dei manager


Post di Paolo Neirotti, Direttore della Master School e Docente di Strategia e Organizzazione aziendale del Politecnico di Torino –
Le sperimentazioni in atto in alcune imprese su modelli di settimana corta, oltre che i tentativi di andare verso un disegno di legge che la incentivino, pongono grande attenzione in tutti i settori verso formulazioni di orario di lavoro che aprano alla possibilità di lavorare meno e con logiche di maggiore flessibilità nel tempo. E’ la digitalizzazione, insieme a nuovi modi di lavorare orientati ad eliminare sprechi e tempi morti, che rende possibile una riduzione del tempo lavorato permettendo un aumento della produttività del lavoro.
Tuttavia il legame tra investimenti nel capitale tecnico ed organizzativo delle imprese e produttività è di difficile generalizzazione, soprattutto in Italia. Nel nostro paese la crescita della produttività in termini reali sconta ritardi rispetto ad altri paesi europei oltre che una notevole dispersione degli andamenti settoriali per via di caratteristiche dimensionali e operative di imprese che rendono più difficoltoso l’investimento nelle tecnologie digitali.
Conseguentemente la settimana corta non appare ad oggi perseguibile per tutti i lavoratori e per le imprese. Sarebbe tuttavia semplicistico pensare che per via delle difficoltà verso la digitalizzazione mostrate dalle imprese del nostro paese logiche di settimana corta non possano decollare. In Italia gli orari di lavoro e la loro organizzazione seguono molteplici schemi che sono il frutto di specificità settoriali e territoriali. In questa diversità di approcci, la settimana corta può quindi assumere varie forme.
Settimana corta, perché un unico schema non può funzionare
In primo luogo, vale la pena ricordare che il trend storico di lungo periodo mostra una progressiva riduzione delle ore lavorate annualmente. Tuttavia, molte statistiche evidenziano che i ruoli più qualificati tendono a lavorare più ore a settimana rispetto a quelli meno qualificati. L’Istat, ad esempio, rileva che in Italia il 10% dei lavoratori supera le 50 ore settimanali.
Anche l’OCSE da anni osserva un crescente divario legato al livello di qualificazione scolastica, alimentato da un’elevata domanda di profili specializzati da parte delle imprese e da un’offerta formativa che fatica a stare al passo.

Molte statistiche evidenziano che i ruoli più qualificati tendono a lavorare più ore a settimana rispetto a quelli meno qualificati. (Immagine generata con Gemini AI)
È utile ricordare che una riduzione dell’orario lavorativo potrebbe contribuire a riequilibrare le opportunità di carriera tra uomini e donne. Infatti, il fenomeno del maggior numero di ore lavorate tra i profili più qualificati è inevitabilmente connesso alle disparità di genere, in particolare nella copertura di ruoli tecnici e di maggiore responsabilità.
La digitalizzazione non funziona allo stesso modo in tutti i settori
In secondo luogo, non in tutti i settori le possibilità di ridurre tempi morti o più generalmente la quantità di lavoro attraverso la digitalizzazione sono ugualmente percorribili. In una linea di produzione di una fabbrica nuovi modi “snelli” di lavorare, digitalizzazione e nuova robotica possono aumentare la produttività e la quantità di prodotto a parità di tempo lavorato. Ma questo non è ad esempio possibile in alcuni contesti come trasporti o servizi di rete, dove l’intelligenza artificiale e il monitoraggio da remoto aumentano sì le capacità di controllo e di garantire sicurezza del lavoro, ma non possono più di tanto ridurre la necessità di lavoro umano.
In modo analogo, in molti settori in cui il lavoro avviene sul campo e all’aperto, il tempo di lavoro si presta all’andamento ciclico delle ore di luce naturale lungo l’anno oltre che all’incertezza del tempo atmosferico. In questi contesti, diviene più difficile innestare schemi di settimana corta basati su un aumento dell’orario giornaliero di lavoro al fine di ridurre di un giorno la settimana lavorativa. In questi casi, allungare l’orario di lavoro dal lunedì al giovedì al fine di eliminare o di accorciare il venerdì lavorativo potrebbe avere un impatto sulla sicurezza.
Bisogna inoltre sottolineare che in molti degli ambiti dove si parla di settimana corta (fabbriche) non è possibile ricorrere al lavoro in remoto e la settimana corta è quindi una soluzione sia per poter garantire una migliore copertura della capacità produttiva su tre turni giornalieri, sia per poter ribilanciare la disparità di trattamento tra lavoratori di produzione e di ufficio.
Settimana corta e lavoro flessibile, le sfide dei manager
Cosa serve quindi ai manager prima ancora di attendere gli eventuali esiti di riforme o incentivazioni ex lege di un orario di lavoro accorciato o di avviare sperimentazioni? Prima di tutto occorre vedere schemi flessibili di orario di lavoro come una variabile cruciale del sistema di welfare e sviluppo delle persone in azienda. Questo aspetto deve essere coltivato insieme ad altri elementi quali lo sviluppo di una cultura di impresa fortemente identitaria e di appartenenza, investimenti per lavorare meglio e in modo più produttivo e sicuro, oltre che l’attenzione alla persona e ai suoi bisogni individuali.
Questi aspetti richiedono nuovi stili di management dove il controllo è sui risultati invece che sul solo tempo lavorato, su una maggior autonomia e capacità di collaborazione dell’individuo nel momento in cui orari e spazi di lavoro divengono meno identificati in maniera univoca. Questa è una precondizione organizzativa alla base dell’ipotesi che una riduzione dell’orario di lavoro abbia un effetto specifico sulla produttività del lavoro.
Settimana corta, cosa suggeriscono le sperimentazioni avviate in Italia
Infine occorre tenere conto che le iniziative portate avanti in Italia su base volontaria da alcune selezionate imprese sono sperimentazioni in cui le stesse imprese ammettono la possibilità di introdurre correttivi dopo un periodo iniziale di analisi dell’impatto su produttività, occupazione, sicurezza e qualità dei processi produttivi. Inoltre, queste sperimentazioni in atto hanno introdotto riduzioni molto circoscritte delle ore lavorate. Ad esempio, Intesa Sanpaolo ha ridotto in via sperimentale l’orario di lavoro da 37,5 a 36 ore, distribuite su quattro anziché cinque giorni a settimana. Lamborghini per il personale di produzione ha ridotto il numero di venerdì al mese lavorati e le ore lavorate a 37,25.
L’ostacolo delle coperture finanziarie
Questi aspetti aiutano a comprendere alcuni dei motivi per cui la discussione del disegno di legge italiano che prevede forme di incentivazione fiscale per una riduzione della settimana da 40 a 32 ore si sia arenata lo scorso novembre sulla consapevolezza che le coperture finanziarie sarebbero particolarmente gravose e avrebbero un ritorno incerto.
Ad esempio, un recente studio di Andrea Garnero e Alessandro Tondini sulle riforme europee di fine anni novanta (dalle 35 ore francesi al Belgio, Portogallo, Italia e Slovenia), che hanno portato ad un taglio dell’orario settimanale e giornaliero senza una riduzione dei giorni di lavoro, ha messo in luce che questi assetti di “settimana corta” non sono stati compensati da un aumento della manodopera e da un aumento della produttività del lavoro. Occorre infine domandarsi quale possa essere il livello di compatibilità che legislatore e imprese intravedono tra lavoro agile e settimana corta.
A fronte di questi elementi di complessità ed incertezza, maggiori sperimentazioni a livello di impresa o riforme strutturali porterebbero evidenze derivanti dal “muoversi in acque inesplorate” che possono portarci a nuove valutazioni su benefici e sfide di una settimana corta.