La Cina muove in silenzio: scacco ai dazi con lo yuan digitale

scritto da il 10 Aprile 2025

Post di Marco Casario, ceo di Quantaste

Trump alza i dazi al 145%. La Cina non risponde con parole, ma con codici digitali. E mette il dollaro nel mirino. “Non sono come gli altri presidenti. Non permetterò più che la Cina ci derubi”. Con queste parole, Donald Trump ha scatenato l’ennesimo terremoto nella già fragile architettura del commercio globale. In quello che appare sempre più come un braccio di ferro personale con Pechino, il tycoon ha imposto tariffe esorbitanti su gran parte dei beni cinesi. È il colpo di grazia a una guerra commerciale che, nata sotto il segno della retorica protezionista, si è ormai trasformata in una contesa sistemica. Ma la Cina, ancora una volta, ha scelto un’altra via.

Nessuna minaccia. Nessuna ritorsione palese. Solo una dichiarazione sobria e glaciale, seguita da una mossa che potrebbe riscrivere le regole del gioco: lo yuan digitale è stato ufficialmente integrato nel sistema internazionale di pagamenti.

La sfida alla supremazia finanziaria americana

Non è la prima volta che Pechino risponde al fuoco con il silenzio. Ma questa volta il silenzio è più eloquente di qualsiasi discorso all’ONU. Il digital renminbi, già in fase di test interno dal 2020, è ora parte integrante dei flussi commerciali con dieci Paesi ASEAN e sei nazioni del Medio Oriente. Tradotto: oltre il 38% del commercio globale potrà ora regolarsi senza passare da SWIFT – e soprattutto senza passare dal dollaro statunitense.

È un passo storico. È anche, senza mezzi termini, una sfida diretta alla supremazia finanziaria americana.

Il tempismo è chirurgico. Con le nuove tariffe doganali Washington rischia di colpire non solo Pechino, ma anche se stessa. Le importazioni cinesi valgono oltre 440 miliardi di dollari l’anno: componenti elettronici, metalli industriali, beni di consumo. Gli iPhone, per intenderci, potrebbero presto costare il doppio. Il sogno di riportare la manifattura in America si scontra con la dura realtà dei costi, della carenza di manodopera e della dipendenza da materie prime critiche e terre rare che – ironia della sorte – arrivano per lo più proprio dalla Cina.

L’alternativa cinese: lo yuan digitale

La mossa di Pechino non è solo tecnica. È profondamente strategica. Collegando lo yuan digitale a un network di Paesi chiave, la Cina sta costruendo un sistema di pagamenti parallelo, più rapido, meno costoso e – soprattutto – indipendente dai capricci politici occidentali. In una sola transazione, il regolamento può avvenire in sette secondi, contro i tre-cinque giorni del sistema attuale. Le commissioni crollano. L’intermediazione svanisce. Il controllo sfugge.

Pechino ha collegato questo nuovo sistema alle sue due grandi ambizioni: da un lato, la Belt and Road Initiative – il maxi piano infrastrutturale lanciato nel 2013; dall’altro, l’architettura digitale che le consente di gestire i flussi commerciali senza transitare per New York o Londra.

In fondo, è il classico approccio cinese: non sfidare frontalmente, ma aggirare. Non sabotare il vecchio sistema, ma costruirne uno nuovo.

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Sfida al dominio del dollaro: il digital renminbi, già in fase di test interno dal 2020, è ora parte integrante dei flussi commerciali con dieci Paesi ASEAN e sei nazioni del Medio Oriente (Immagine creata con DALL-E AI)

Una guerra (in)visibile

La de-dollarizzazione non è più un’ipotesi accademica. È una realtà. È iniziata da tempo, alimentata dalla crescente sfiducia verso le sanzioni unilaterali americane, dalla ricerca di sovranità monetaria da parte di Paesi emergenti, e ora accelerata dalla tecnologia.

Il gruppo ASEAN è il principale partner commerciale della Cina. Il valore degli scambi supera ormai i mille miliardi di dollari l’anno, e ora buona parte di quel flusso non passerà più per il dollaro. A questo si aggiungono i rapporti sempre più stretti con il Golfo: Abu Dhabi, Riyad, Doha. In un mondo multipolare, la Cina offre ciò che molti desiderano: stabilità finanziaria senza condizionamenti geopolitici.

Questo è il cuore della strategia. E anche la sua forza.

Un mondo senza centro

Il nuovo sistema valutario che Pechino immagina non ha più un baricentro unico. Non è una piramide, ma una rete. Ogni nodo è autonomo. Ogni transazione può avvenire direttamente tra le parti, senza autorizzazioni di terzi. È la fine del dollaro come intermediario obbligato.

Non si tratta – almeno per ora – di sostituirlo. Ma di relativizzarlo. Di creare un ambiente in cui il biglietto verde sia uno fra molti, e non più l’unico. È il progetto dei BRICS+, è la visione di un sistema finanziario decentrato, capace di resistere ai blocchi, alle crisi sistemiche, ai diktat.

E, nel lungo termine, a questa idea si accompagna un disegno più ampio: costruire pace e stabilità attraverso i flussi economici. Un paradosso? Forse. Ma anche una lezione: mentre a Washington si alzano muri fiscali, a Pechino si costruiscono ponti digitali.

Un dollaro marginalizzato?

Il dollaro continuerà a esistere. Ma sarà affiancato, diluito, marginalizzato. E la sua traiettoria sarà inversamente proporzionale a quella delle nuove reti finanziarie emergenti. Le banche centrali asiatiche stanno già testando il sistema. Le aziende, già lo usano. Le regole, stanno cambiando.

Trump ha acceso la miccia. Ma è stata la Cina a spostare l’asse.

E forse è proprio questo l’inizio di una nuova era. Non fatta di guerre commerciali tradizionali, ma di conflitti invisibili per il controllo dei dati, dei protocolli, dei flussi. E la prossima grande guerra, come spesso accade, non si combatterà con le armi. Si combatterà con il software.