Chi sono i veri mercantilisti? Ripensare la narrazione sui dazi Usa

scritto da il 08 Aprile 2025

Post di Giovanni Di Corato, Amministratore Delegato Amundi RE Italia SGR* –

Di fronte alle recenti iniziative tariffarie dell’amministrazione Trump, il coro della politica internazionale, dei media e delle istituzioni economiche è stato tanto compatto quanto prevedibile: allarme rosso sul ritorno del protezionismo, preoccupazione per le sorti del commercio globale, accuse di nazionalismo economico. La lettura dominante è che gli Stati Uniti stiano abbandonando il multilateralismo commerciale per imboccare la strada pericolosa dell’unilateralismo. Ma come spesso accade, ciò che si ripete troppo facilmente rischia di diventare un riflesso ideologico più che una valutazione analitica.

Una lettura meno emotiva, più ancorata ai dati e alla logica sistemica, restituisce un quadro profondamente diverso. Anzi, capovolge la prospettiva: a ben vedere, non sono gli Stati Uniti a essersi comportati da potenza mercantilista nel mondo post-Guerra Fredda, bensì molti di quei paesi che oggi si stracciano le vesti per la presunta chiusura americana. Sono stati proprio gli USA, in modo strutturale e continuativo, a fungere da locomotiva della domanda globale, assorbendo l’eccesso di produzione altrui attraverso importazioni massicce, sostenute da consumi interni incentivati non solo culturalmente ma anche sistemicamente. Il resto del mondo, al contrario, ha perseguito una strategia di crescita fondata su surplus commerciali cronici, alta tassazione indiretta e compressione della domanda interna.

Che cosa è successo negli ultimi 20 anni

Il cuore di questa dinamica è semplice da individuare. Negli ultimi vent’anni, la quota dei consumi delle famiglie sul PIL americano è rimasta straordinariamente stabile, oscillando attorno al 67–68%. Una cifra che non ha paragoni tra le grandi economie del pianeta. In Francia, Germania, Italia e Giappone i consumi interni sono inferiori al 60% del PIL, con la Germania che nel 2023 si attestava sotto il 50%. In Cina la cifra è ancora più impressionante: poco più del 37%. In altre parole, mentre gli Stati Uniti compravano il mondo, il mondo produceva per venderlo agli Stati Uniti. La macchina della domanda globale ha girato per decenni con benzina a stelle e strisce.

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Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump (Foto di SAUL LOEB / AFP)

Questo ruolo non è stato un accidente storico, ma la conseguenza diretta di precise scelte strutturali. Negli Stati Uniti non esiste un’imposta federale sul valore aggiunto. La tassazione sui consumi è affidata agli Stati federati e si limita a un’imposta sulle vendite che raramente supera il 7–8%. In alcuni Stati – come il Delaware o l’Oregon – è addirittura assente. A questa tassazione contenuta si è affiancato un regime tariffario storicamente tra i più aperti al mondo: prima degli interventi dell’amministrazione Trump, l’aliquota media sui beni importati si attestava attorno all’1,6%, con punte del 2,5% per beni come le automobili europee.

Dazi, lo squilibrio preesistente

In Europa, al contrario, la situazione è ben diversa. I dazi sulle auto statunitensi si aggirano sul 10%, a cui si somma l’IVA del 20–22%, calcolata anche sul valore del dazio. Il risultato è che un’auto americana acquistata da un consumatore europeo scontava un onere fiscale totale di circa il 30% sul prezzo di fabbrica, mentre un consumatore statunitense che acquistava un’auto europea pagava tra il 3,5% e il 12,5% a seconda dello Stato. Una sproporzione sistemica che si è protratta per anni, nel più totale silenzio dei fautori del libero commercio.

La narrazione attuale, che accusa gli Stati Uniti di mettere a repentaglio l’equilibrio globale, ignora questo evidente squilibrio preesistente. I numeri dei saldi commerciali confermano questa dinamica: la Germania ha chiuso il 2023 con un surplus commerciale superiore ai 200 miliardi di euro; la Cina ha registrato nel 2022 un surplus record di oltre 800 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti, al contrario, accumulano deficit superiori ai 1.000 miliardi di dollari l’anno. Chi è davvero mercantilista?

Stati Uniti nazione di cicale?

Una delle critiche più frequenti rivolte agli Stati Uniti, e spesso usata come argomento per screditarne il modello economico, è quella di essere una nazione di “cicale”: spendaccioni, disinteressati al risparmio, incuranti del debito, pubblico o privato che sia. Ma anche questa accusa, se analizzata sistemicamente, si sgonfia. In un mondo in cui una parte dei paesi vuole esportare molto più di quanto importa, qualcuno deve assumere il ruolo speculare, importare di più, consumare di più, e sì, anche indebitarsi.

I saldi globali si chiudono sempre a zero: se tutti vogliono vendere, qualcuno deve pur comprare. Se tutti cercano l’avanzo, qualcuno deve accettare il disavanzo. La retorica della formica virtuosa contro la cicala dissipatrice perde di senso quando applicata a equilibri macroeconomici planetari. Le “cicale” americane hanno evitato che le “formiche” tedesche e cinesi si schiacciassero da sole con i propri surplus.

L’Europa, la tassazione sui consumi, lo Stato sociale

Un’altra obiezione tipica, avanzata da chi difende il modello europeo, è che il livello elevato della tassazione sui consumi serva a finanziare uno Stato sociale più generoso. Ma anche questa difesa non regge a una valutazione razionale. È vero che l’Europa continentale ha sistemi di welfare universalistici più ampi di quello americano. Ma non esiste alcuna necessità tecnica o logica per cui il loro finanziamento debba avvenire comprimendo la domanda interna.

I governi dispongono di una pluralità di leve fiscali per generare gettito: dalla tassazione progressiva del reddito a quella sulle imprese, passando – soprattutto – per i tributi patrimoniali, molto sottoutilizzati nel confronto internazionale. Scegliere di finanziare il welfare tramite l’IVA piuttosto che attraverso altre forme di imposizione è una scelta politica, non un vincolo strutturale. Una scelta che ha come effetto – voluto o collaterale – la riduzione della propensione al consumo.

L’effetto dei dazi sull’economia domestica americana

Inoltre, quando si discute di dazi, si tende a dimenticare un elemento essenziale. I dazi non sono altro che un’imposta indiretta sul consumo di beni importati. E, come ogni imposta sui consumi, il loro effetto economico dipende in misura decisiva da una variabile: la capacità del sistema domestico di sostituire quei beni con alternative prodotte internamente. Se tale capacità è bassa, l’effetto principale sarà un aumento dei prezzi per i consumatori.

Se invece la sostituzione è possibile e compatibile con la capacità produttiva disponibile, l’effetto sarà un incentivo alla produzione interna. Con un impatto contenuto sui prezzi. È qui che il caso americano diventa particolarmente interessante. Molte categorie di beni oggi importati – come le automobili – possono essere prodotte all’interno del paese con tempi e costi relativamente compatibili. La manifattura americana ha subito un ridimensionamento, ma le competenze e le infrastrutture esistono ancora. E possono essere riattivate, soprattutto con adeguati stimoli.

E perché i contro dazi europei possono rivelarsi un’arma spuntata

Al contrario, non è affatto detto che l’Europa o altri paesi possano applicare la stessa logica nei confronti dei prodotti americani. Le tecnologie avanzate, i servizi digitali, l’high tech, la farmaceutica, le biotecnologie, i semiconduttori: sono tutti settori in cui gli Stati Uniti vantano una posizione globale dominante, spesso ineguagliata. Imporre dazi su questo tipo di importazioni significa, in molti casi, colpire beni difficilmente sostituibili con alternative domestiche.

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La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. (Foto REUTERS/Yves Herman)

I “contro-dazi”, tanto sbandierati come ritorsione, rischiano di trasformarsi in un’arma spuntata, o peggio, autolesionista. Perché se è relativamente più facile per gli USA tornare a produrre un’auto, non è affatto facile per l’Europa o l’India sviluppare in tempi brevi un’alternativa a un processore avanzato, a un sistema operativo, o a una terapia biotech prodotta in California o nel Massachusetts.

La richiesta di riequilibrio? Non è un attacco al libero commercio

Ecco allora che le politiche dell’amministrazione Trump, che pure possono apparire rozze o spigolose nelle forme, si inseriscono in un contesto di lungo periodo in cui gli Stati Uniti hanno a lungo sostenuto – e in parte subito – l’equilibrio commerciale mondiale. La richiesta di riequilibrio non è un attacco al libero commercio. E’ piuttosto un invito alla reciprocità: se i mercati americani sono stati per decenni aperti e incentivati, forse è il momento che anche gli altri paesi si assumano una quota più equa di responsabilità nella gestione della domanda globale. Chiedere che un’auto americana non venga tassata tre volte tanto di una tedesca non è una rivendicazione protezionista, ma un’esigenza di equità commerciale.

Forse è tempo di riscrivere la narrativa. Gli Stati Uniti non sono stati, in questi decenni, i campioni del protezionismo, ma il grande mercato aperto su cui si sono retti i modelli mercantilisti altrui. Hanno pagato questo ruolo con deficit commerciali, debiti crescenti e pressioni sull’industria domestica. Se oggi decidono di ridefinire i termini dello scambio globale, non lo fanno per chiudersi, ma per riequilibrare un sistema che per troppo tempo ha funzionato a senso unico. I veri mercantilisti, ieri come oggi, non parlano inglese. E non vivono a Washington.

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