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Trump si sbaglia: il deficit può rendere l’America di nuovo grande!


Post di Nathalie Janson, professoressa associata presso Neoma Business School –
Dall’inizio del suo secondo mandato, Donald Trump è stato implacabile: ha aumentato le tariffe, ha minacciato il commercio e ha fatto brutali inversioni di marcia. L’ultima? Una tassa del 25% sull’acciaio e l’alluminio importati, subito accolta da una ritorsione europea del 50% su alcuni prodotti americani. Messico, Canada, Cina… tutti si stanno preparando per rispondere. Ma a Trump sfugge il punto: il deficit commerciale non è il risultato di un’invasione di prodotti stranieri a basso costo. È la diretta conseguenza della supremazia finanziaria americana, che non cesserà tanto presto.
Il deficit commerciale, il prezzo del dollaro domina
Un Paese può pagare le proprie importazioni in tre modi: scambiando beni e servizi, vendendo attività finanziarie o emettendo moneta. Dalla fine del gold standard nel 1971, il dollaro è diventato la valuta di riferimento. Nixon ha seppellito il sistema di Bretton Woods e il mondo è entrato nell’era della fiat money. Il risultato? Una domanda internazionale inesauribile per il dollaro, rafforzata dal suo ruolo centrale nel commercio mondiale.
Le cifre parlano da sole: nel 1975 gli Stati Uniti hanno registrato un surplus commerciale di 12,4 miliardi di dollari. Nel 1987: un deficit abissale di 153,3 miliardi di dollari. Perché è successo? Per soddisfare la domanda mondiale di dollari, gli Stati Uniti hanno dovuto inondare il mercato con la loro valuta. In cambio, acquistano beni e servizi stranieri, aumentando così il deficit commerciale. Un deficit che non è una debolezza, ma una conseguenza inevitabile del ruolo dominante del dollaro nell’economia globale.
La finanza, motore dell’egemonia americana
Con la smaterializzazione delle transazioni negli anni ’80, i mercati finanziari esplodono. Azioni, obbligazioni, prodotti derivati… i capitali affluiscono verso Wall Street. Il “Treasury Bill” diventa il riferimento assoluto, equivalente a moneta. I cinesi, a lungo detentori massicci del debito americano (fino al 7%), hanno ridotto la loro esposizione al 2%, pari a circa 700 miliardi di dollari. Ma questo non cambia nulla: il mercato americano resta senza rivali in termini di profondità e liquidità. Anche l’Europa fatica a creare un vero mercato unico dei capitali. Senza questa potenza finanziaria, l’innovazione ne risentirebbe e le start-up tecnologiche europee continuerebbero a espatriare negli Stati Uniti per sopravvivere.
Il deficit commerciale non è quindi un sintomo di declino industriale, ma il risultato di un’estrema specializzazione nella finanza. Gli unicorni europei non attraversano l’Atlantico per il sole della California, ma per accedere a finanziamenti introvabili in Europa. È il prezzo da pagare per un mercato finanziario ultra-dinamico, motore dell’innovazione e della crescita. L’enorme capacità degli Stati Uniti di attrarre capitali dà loro un vantaggio decisivo: un ambiente in cui il rischio è meglio finanziato, dove le imprese possono crescere più rapidamente e dove gli investitori trovano rendimenti attraenti.
Trump, un mercantilismo superato
Trump, nostalgico del mercantilismo, preferisce i dazi doganali alle leggi dell’economia.
La sua ossessione per il deficit commerciale ignora tre realtà fondamentali:
– L’instabilità economica: l’incertezza permanente sui dazi doganali frena gli investimenti e disorganizza le catene di approvvigionamento. Le aziende americane faticano a pianificare le proprie strategie di produzione e di esportazione.
– L’aumento dei costi: i prodotti tassati, non sostituibili a livello locale, fanno salire i prezzi per i consumatori americani. Contrariamente a quanto afferma Trump, queste tasse non penalizzano solo i produttori stranieri, ma soprattutto le famiglie americane.
– Il freno all’innovazione: forzando la rilocalizzazione di alcune industrie, si crea una cattiva allocazione delle risorse e si compromettono gli investimenti strategici. Le imprese si trovano costrette a investire in settori poco competitivi a scapito delle industrie del futuro.

Trump attacca, ma l’Europa, la Cina e il Canada rispondono con ritorsioni e il sentimento anti-americano si diffonde (Immagine generata con Grok AI)
Risultato: un’esplosione delle tensioni commerciali. L’Europa, la Cina e il Canada rispondono con ritorsioni e il sentimento anti-americano si diffonde. Tesla subisce un boicottaggio in Europa, mentre le aziende americane temono per i loro mercati di esportazione. Le tensioni con la Cina continuano a crescere e Pechino cerca attivamente di ridurre la sua dipendenza dal dollaro, rafforzando il ruolo dello yuan negli scambi internazionali.
Questo protezionismo esasperato genera effetti perversi nel lungo termine. Da un lato, isola progressivamente l’economia americana e ne riduce l’attrattività. Dall’altro, spinge i concorrenti a rafforzarsi reciprocamente per contrastare il dominio degli Stati Uniti. L’Europa e l’Asia accelerano così i loro sforzi per sviluppare i propri circuiti finanziari, il che, paradossalmente, potrebbe indebolire il ruolo del dollaro nel lungo periodo.
La guerra di Trump sul deficit è un’occasione per l’Europa
Per l’Europa, questa guerra commerciale è un’opportunità. Piuttosto che entrare in una gara di protezionismo, deve cogliere l’occasione per diversificare i suoi partner commerciali e rafforzare la propria autonomia finanziaria. La creazione di un mercato dei capitali unificato diventa un’urgenza strategica per evitare che le sue migliori aziende siano costrette a cercare finanziamenti altrove.
Trump crede di proteggere l’America. In realtà, la sta indebolendo. Perché quel deficit che vuole eliminare è la chiave della potenza americana: garantisce ai consumatori prezzi competitivi e finanzia l’innovazione.
Piuttosto che dichiarare guerra al proprio sistema economico, il presidente degli Stati Uniti dovrebbe riconoscere che il deficit commerciale è ciò che realmente “rende l’America di nuovo grande”.