Momento Lenin: tra debito, dazi e guerra

scritto da il 10 Marzo 2025

Non come rivoluzionario bolscevico ma come autore del celebre saggio sull’imperialismo, Lenin è oggi utile per comprendere gli snodi della fase storica, dalla svolta diplomatica degli Stati Uniti ai tormenti dell’Europa sul riarmo. E per cogliere gli errori di Niall Ferguson e degli altri teorici di grido sulle vere cause della crisi egemonica americana.

Articolo di Emiliano Brancaccio, docente di economia politica presso l’Università “Federico II” di Napoli e promotore, con Robert Skidelsky, dell’appello “Le condizioni economiche per la pace” pubblicato sul Financial Times, Le Monde ed Econopoly del Sole 24 Ore

L’istante, l’attimo, il “momento” decisivo. Tra gli scienziati l’espressione è ricorrente. In fisica, Galileo chiamava “momento” la diminuzione della gravità di un corpo poggiato su un piano inclinato. In economia si parla di “momento Minsky”, il teorico della crisi ritornante, per identificare il punto di precipitazione del mercato finanziario, quando la bolla speculativa raggiunge la sua massima estensione prima di esplodere. In tutti i casi è implicito un cambio di scenario: il “momento” come svolta nelle “leggi di movimento” del sistema.

Applicando questa idea all’indagine del processo storico, sembra lecito azzardare che gli sconcertanti tumulti globali che stiamo oggi osservando possano esser battezzati “momento Lenin”. Il riferimento non è al rivoluzionario bolscevico ma all’infaticabile studioso che agli esordi della prima guerra mondiale firmò il celebre saggio su “l’imperialismo”, un testo utile come pochi per capire la contemporaneità.

L’intreccio di rapporti di credito e debito internazionali

“L’imperialismo” di Lenin è un’opera più sottovalutata dagli economisti volgari che sopravvalutata dai comunisti ortodossi. Di certo non può esser definita “scientifica” in senso moderno: la falsificazione popperiana, o qualsiasi altra modalità di verifica empirica, sono rese difficilmente praticabili dal tenore narrativo dell’elaborato. La sua lettura, tuttavia, offre una cornucopia di intuizioni originalissime, da cui intere generazioni di studiosi, marxisti e no, hanno tratto le basi per canoniche ricerche di frontiera. [1]

L’intuizione leniniana che ha retto di più alla prova del tempo è il nesso tra l’intreccio di rapporti di credito e debito internazionali, i relativi processi di centralizzazione dei capitali in blocchi monopolistici contrapposti e la conseguente mutagenesi della lotta economica in vero e proprio conflitto militare. “Momento Lenin”, potremmo dire, è esattamente quell’angoscioso punto di caduta degli eventi, quell’ora di terrore collettivo, in cui l’intrico della competizione capitalistica esonda verso lo scontro armato.

In tal senso, la guerra in Ucraina e le sue code, che saranno lunghissime e avvolgenti, possono esser considerate “momento Lenin” di questa nuova epoca di disordine mondiale.

Trump, personificazione del debito americano

Per comprendere il punto, torna utile analizzare la linea diplomatica dei vari protagonisti del “momento” alla luce degli interessi materiali che sono chiamati a servire. Per tale esercizio, Donald Trump è cavia ideale. Del nuovo presidente americano tutti analizzano il piglio, la postura, la presunta capacità soggettiva di smuovere l’oggettività degli eventi. Né i simpatizzanti né i detrattori riescono ad analizzare Trump per quello che realmente è: un altro vivace burattino nelle mani del processo capitalistico.

Donald Trump non è altro che la personificazione del debito americano verso l’estero, un enorme rosso che ha ormai superato la cifra record di 23 mila miliardi di dollari. Questo gigantesco passivo netto verso il mondo ha inceppato l’immane “circuito militar-monetario” su cui l’America aveva edificato la sua egemonia globale dopo il tracollo sovietico. Lo stesso problema, si badi, aveva già lambito Biden e le precedenti amministrazioni, quando gli Stati Uniti si videro costretti ad allentare la morsa su vaste aree di occupazione militare, economica ed estrattiva, dall’Iraq all’Afghanistan. Con Trump, tuttavia, l’impossibilità di espansione imperiale fondata sul debito è divenuta un fatto incontrovertibile. [2]

L’errore di Ferguson sulla crisi egemonica americana

Lo storico Niall Ferguson di Stanford ha cercato di sintetizzare il problema sostenendo che la crisi egemonica dell’impero avviene quando la spesa per interessi e per il rimborso del debito pubblico supera la spesa militare. Federico Rampini e vari altri opinionisti di grido sono corsi dietro a questa teoria. Sfortunatamente non sono in grado di comprendere che la “legge” di Ferguson è sbagliata. A differenza di Lenin, infatti, Ferguson si sofferma sulla sola parte pubblica del debito.

Ma se il problema fosse di solo debito pubblico interno, la politica monetaria potrebbe agevolmente finanziarlo imponendo bassi tassi d’interesse, per cui il rimborso resterebbe stabilmente al di sotto della spesa per armamenti. Le vere difficoltà emergono quando si tratta di debito estero, non solo pubblico ma anche privato. In tal caso diventa necessario attrarre capitali dal resto del mondo per sostenerlo e quindi i tassi di rendimento non possono scendere al di sotto delle soglie che gli economisti chiamano “di arbitraggio”. E’ in questo caso che emerge il vincolo alla spesa, generale e quindi militare.

Il vincolo esterno, i dazi e la de-dollarizzazione

Per lungo tempo si è creduto che l’America, detentrice dell’esorbitante privilegio del dollaro, fosse immune da questo vincolo esterno. Gli apologeti di quella dottrina un po’ confusa che va sotto il nome di “modern monetary theory” ancora si illudono. Ma la verità ormai è un’altra. La copertura del passivo a colpi di emissioni di biglietti verdi è divenuta molto incerta. Lo stesso protezionismo americano pregiudica il diritto dei detentori esteri di dollari di usarli a piacimento per comprare capitali occidentali, e così diffonde dubbi ulteriori sul valore della moneta e sulla possibilità, con essa, di coprire il debito. Per stupefacente eterogenesi dei fini, dunque, proprio le barriere commerciali e finanziarie dell’America si rivelano motore della temuta “de-dollarizzazione”.

Il nerbo di Cicerone, dell’illimitato denaro per dare forza alla guerra, si è dunque spezzato. Da qui bisogna partire per afferrare la crisi egemonica americana. Ed è sempre da qui che si può comprendere il ritiro di Trump anche dal fronte ucraino. Per l’America indebitata verso il mondo è infatti tempo di serrare i ranghi, circoscrivere gli obiettivi imperiali, ridimensionare l’area di egemonia. Se dunque una “legge” di crisi dell’impero esiste, è nel confronto tra spesa militare e servizio del debito estero.

Ad azione segue reazione

La difficoltà finanziaria americana spiega pure il modo micragnoso con cui Trump ha preteso da Zelensky le terre rare dell’Ucraina per rimborsare le spese militari. Siamo cioè al punto in cui il debito diventa molla di quel che già Lenin chiamava “accaparramento intensivo” di materie prime.

Per Washington, del resto, il problema del confine russo è ormai secondario. Ciò che oggi preme alla Casa Bianca è blandire la Russia per tentare di separare i suoi destini da quelli dell’avversario principale: la Cina. A tale scopo, Trump arriverà persino a svendere la “gold card” della cittadinanza USA ai capitalisti russi, per la modica cifra di cinque milioni di dollari. Appena ieri sanzionati, gli oligarchi di Mosca sono ora vezzeggiati. Il salto mortale americano è spettacolare.

Lenin

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, in una sfida generata dall’AI. Sullo sfondo, il ritratto di Lenin

Questa riesumazione del vecchio divide et impera nixoniano suona però tardiva. Dall’inizio della guerra, l’interscambio commerciale tra Russia e Cina è raddoppiato. Come ammonisce Xi Jinping, il tentativo americano di separare l’una dall’altra appare ormai disperato.

Il grande debitore americano, il grande creditore cinese

Ciò nonostante, il morso del debito estero costringerà gli Stati Uniti a tentare altre mosse, più o meno estreme, pur di limitare l’espansione della Cina e dei suoi alleati. Il rischio, altrimenti, è un avanzamento del grande creditore cinese nei processi di fusione, acquisizione e controllo capitalistico nelle aree d’influenza che il grande debitore americano in ritirata ha dovuto lasciare sguarnite. Per la prima volta nella storia, direbbe Lenin, la centralizzazione capitalistica sta prendendo la via dell’Oriente. Arginare questo nuovo vento, per Trump e i suoi, è questione vitale per l’egemonia capitalistica.

Ecco perché la postura del presidente americano si sta facendo sempre più provocatoria. Basti pensare alla riconquista del canale di Panama, che era da tempo in mano cinese. Trump ha avvisato che l’avrebbe ripreso, con le buone o con le cattive. I cinesi sono dunque stati costretti a svenderlo in fretta all’americana Blackrock, al sottocosto di 19 miliardi di dollari. Il risultato è che le barriere protezionistiche americane saranno da ora in avanti applicate anche al nevralgico crocevia panamense. Tra moral suasion e intimidazione mafiosa il passo si sta facendo sempre più breve.

Come per legge newtoniana, tuttavia, alle azioni trumpiane seguono le reazioni cinesi. Il portavoce del ministero degli esteri di Pechino ha dichiarato: “Se gli Stati Uniti insisteranno con la guerra commerciale, o con qualsiasi altro tipo di guerra, la Cina li combatterà fino alla fine”. Qualsiasi: inedito aggettivo indefinito del “momento Lenin”.

Le vere ragioni del riarmo europeo

In questo gigantesco scontro fra zolle tettoniche, resta da esaminare il “tradimento” di Trump verso l’Europa. In Italia e altrove, gli apologeti del riarmo europeo insistono con l’idea che il presidente americano abbia lasciato sguarniti gli ex sodali europei contro una possibile invasione russa. Ma è difficile immaginare una propaganda bellica più infantile di questa.

La realtà della corsa al riarmo dell’Europa è ben altra. Per decenni i paesi Ue hanno agito nel ruolo di veri e propri vassalli dell’impero americano. Dove la NATO impinguata dall’America muoveva le sue milizie, lì si creavano occasioni d’affari per aziende americane in primis, ma in subordine anche per imprese britanniche, francesi, tedesche, italiane. Dall’ex blocco sovietico, all’Africa, al Medio Oriente, è stata questa la storia dell’imperialismo atlantico nella fase che ci stiamo lasciando alle spalle.

E’ evidente allora che nel momento in cui la crisi del debito forza l’impero americano a ridimensionare l’area d’influenza e a espropriare anche gli antichi vassalli, il problema principe delle diplomazie europee diventa uno solo: progettare un imperialismo autonomo, in grado di accompagnare la proiezione del capitalismo europeo verso l’esterno con una potenza militare autonoma. Con le parole di Lenin: i rapporti di potenza si modificano, le modalità di spartizione del mondo debbono mutare di conseguenza.

Memento Lenin

L’ultimo arcano del “momento” è il ruolo della mitica classe subalterna. Dispersi, deprivati di intelligenza collettiva, lasciati in balìa delle sole stupidità individuali, i lavoratori sembrano oggi rassegnati a subire gli effetti di un boom della spesa militare a colpi di tagli ulteriori dello stato sociale e nuove compressioni del potere d’acquisto. Del resto, i pochi che ancora gettano uno sguardo sulla politica ormai parlano la medesima lingua delle diplomazie capitaliste che li governano. La loro più elevata ambizione intellettuale è mettersi sotto la bandiera del “buono” contro l’ultimo “cattivo” di turno. Inconscio adattamento mentale a un futuro di carne da cannone.

Con la rivoluzione liquefatta, alle masse sfugge persino la consolazione della scienza rivelatrice. “Momento Lenin”, memento Lenin.

 

NOTE

[1] Nella vasta letteratura in tema, si veda: Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli (2024). Centralization of capital and economic conditions for peace. Review of Keynesian Economics, 12 (3), 365-384.

[2] Sui nessi tra passivo netto americano e crisi diplomatica internazionale, si veda anche un recente dibattito con il Governatore emerito della Banca d’Italia: Emiliano Brancaccio e Ignazio Visco (2024). “Non-ordine” economico mondiale, guerra e pace: un dibattito tra Emiliano Brancaccio e Ignazio Visco. Moneta e Credito, 77, n. 308.