categoria: Distruzione creativa
L’insidia dell’AI nel cercare lavoro: più algoritmi, meno umani
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Post di Federica Riviello, Founding Partner di Clutch –
Il mondo delle risorse umane sta vivendo una trasformazione radicale, guidata dall’ascesa dell’Intelligenza Artificiale. Un fenomeno che sta ridisegnando non solo le modalità di selezione del personale, ma anche – e soprattutto – l’approccio dei candidati alla ricerca del lavoro. Secondo i dati degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, il 26% dei job seeker utilizza già l’AI per le proprie candidature. Un trend particolarmente marcato tra i più giovani, come evidenzia una ricerca di Randstad ripresa anche dal Financial Times: il 57% dei lavoratori della Generazione Z e il 40% dei Millennials si affidano all’Intelligenza Artificiale per elaborare Cv e lettere di presentazione.
L’altra faccia dell’ottimizzazione
Siamo davanti a un fenomeno di standardizzazione delle candidature che rischia di trasformarsi in un boomerang per i candidati stessi. L’AI permette di creare Cv perfettamente allineati alle keyword dei job posting, ma questo apparente vantaggio nasconde delle insidie. Recentemente ho seguito una candidata del settore luxury che utilizzava l’AI per personalizzare il curriculum in base alle diverse posizioni. Il risultato? Un profilo tecnicamente ineccepibile, ma privo di quella personalità e di quei tratti distintivi che rendono ogni professionista unico. Il rischio concreto è quello di un appiattimento delle candidature, dove l’ottimizzazione algoritmica finisce per oscurare le soft skills e le peculiarità individuali che spesso fanno la differenza in un processo di selezione. Ci sono capacità che l’intelligenza artificiale non è in grado di emulare efficacemente, come la capacità di creare legami, l’intelligenza emotiva o l’attitudine ad integrarsi in una cultura aziendale specifica.
AI e recruiting, tra efficienza e autenticità
L’utilizzo dell’AI nel processo di candidatura presenta indubbi vantaggi in termini di efficienza e velocità. La tecnologia permette di strutturare curricula più mirati e leggibili, facilitando il lavoro dei recruiter nella fase di screening iniziale. Tuttavia, il rischio di produrre contenuti troppo promozionali o asettici è concreto e può essere interpretato negativamente dai selezionatori.
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Secondo McKinsey, entro il 2027 oltre l’80% delle attività di screening preliminare sarà gestito da sistemi di intelligenza artificiale (Designed by Freepik)
La sfida sta nel trovare il giusto equilibrio tra ottimizzazione e autenticità. L’AI dovrebbe essere utilizzata come strumento di supporto per valorizzare le proprie esperienze reali, non come scorciatoia per apparire perfettamente allineati a ogni posizione aperta.
Intelligenza artificiale o intelligenza emotiva?
Secondo una ricerca di PwC, l’89% dei responsabili HR considera le soft skills e le capacità relazionali e sociali come fattori determinanti nel processo di selezione, elementi che l’AI fatica ancora a valutare efficacemente.
Essere consapevoli di limiti e potenzialità dell’AI diventa fondamentale sia per i candidati che per i recruiter. La vera sfida non è tanto quella di creare il Cv perfetto secondo gli standard dell’AI, quanto piuttosto di utilizzare la tecnologia in modo consapevole, preservando la propria credibilità professionale. Come evidenzia l’esperienza di Clutch, il successo nel mondo del lavoro continua a dipendere dalla capacità di costruire relazioni autentiche e di dimostrare qualità umane che nessun algoritmo può replicare.
Lo screening preliminare e il ruolo dell’AI
Secondo le proiezioni di McKinsey, entro il 2027 oltre l’80% delle attività di screening preliminare dei candidati sarà gestito da sistemi di intelligenza artificiale sempre più sofisticati, capaci non solo di analizzare Cv e lettere di presentazione, ma anche di valutare le micro-espressioni facciali durante i videocolloqui e di analizzare i pattern comportamentali dai social media professionali. Ma è proprio questa crescente sofisticazione a sollevare nuovi interrogativi. Un esempio è dato da un software che analizzava le espressioni facciali durante i colloqui online: si è notato che favorisse candidati che sorridevano di più e mantenevano un contatto visivo più costante. Questi criteri sono risultati culturalmente distorti poiché penalizzavano candidati di culture dove queste sfumature hanno significati differenti.
La nascita di un nuovo paradigma
In conclusione, la vera rivoluzione non sarà tanto nell’ulteriore automazione dei processi, quanto nella nascita di un nuovo paradigma “ibrido” di selezione. I recruiter del futuro dovranno sviluppare quella che viene già definita “AI literacy”. Ovvero la capacità di comprendere, interpretare e, quando necessario, mettere in discussione le valutazioni algoritmiche.
In questo scenario potrebbero essere proprio le soft skills – quelle che l’intelligenza artificiale fatica maggiormente a valutare – a diventare ancora più cruciali. In un mercato del lavoro dove le competenze tecniche diventano rapidamente obsolete, la capacità di apprendere e le competenze sociali potrebbero rivelarsi il vero fattore differenziante.
E i candidati? Dovranno sviluppare quello che gli esperti chiamano AI-proof personal branding: un modo di presentarsi che, pur ottimizzato per gli algoritmi, mantenga un’autenticità riconoscibile. Il rischio è che la corsa all’ottimizzazione crei una generazione di professionisti perfetti sulla carta ma indistinguibili nella sostanza. La vera sfida sarà mantenersi rilevanti tanto per gli algoritmi quanto per gli esseri umani.