Guerra giusta e mani sporche: la lucidità è l’unica difesa

scritto da il 06 Febbraio 2025

Siamo in guerra[1]. Sanzioni e carri armati sono la facciata. I conflitti si decidono nei media, nelle istituzioni, nelle menti. Chi controlla la narrazione decide le sorti dello scontro. Parole e immagini definiscono chi è nemico e chi alleato. Ma c’è un problema più profondo: ognuno è certo di essere nel giusto, di combattere una guerra giusta (Walzer, 1977).

La guerra giusta e il dilemma delle mani sporche

L’idea di guerra giusta è antica. Da Sant’Agostino a Tommaso d’Aquino, fino a Michael Walzer (Just and Unjust Wars, 1977), si è cercato di stabilire criteri [2] per renderla “meno terribile del male che intende prevenire”: può essere legittima se combattuta per difesa, secondo regole precise, e finalizzata alla pace.

La politica, come afferma Walzer (1973), è il regno delle dirty hands: governare significa scegliere il male minore, compiere atti immorali in nome di un presunto bene superiore. Nessuno esercita il potere senza sporcarsi le mani.

Machiavelli (1532) l’aveva capito: il potere non si fonda sulla rettitudine, ma sulla virtù, intesa come la capacità di adattarsi alla necessità. Creonte, nell’Antigone di Sofocle (442 a.C.), non dimostra di averlo compreso: si attiene rigidamente alla legge scritta, rifiuta il compromesso e disprezza le conseguenze⸺fino a essere travolto dalla sua stessa intransigenza, e da quella di Antigone.

Socrate avrebbe potuto salvarsi chiedendo l’esilio, ma sceglie di non farlo. Accettando la condanna, smaschera un potere che usa la legge non per fare giustizia, ma per preservare lo status quo. Il suo sacrificio rivela una verità amara: nella sfera pubblica, il compromesso è la regola⸺e la giustizia, troppo spesso, un’illusione. Lo dice chiaramente: “(…) è anzi necessario che chi combatte per il giusto, se deve sopravvivere anche solo per un po’, rimanga un privato e non si dedichi alla vita pubblica” (Platone, Apologia, 31d-32, IV sec. a.C.).

La guerra giusta implica atti immorali compiuti in nome di un bene superiore e comune. Per Machiavelli, la stabilità dello Stato giustifica il compromesso. Creonte si condanna alla rovina perché resta prigioniero della propria legge, incapace di riconoscere il bene ultimo della polis e di adattarsi alla necessità. Atene condanna Socrate a bere la cicuta perché lo considera una minaccia all’ordine politico, più per ciò che rappresenta che per ciò che ha fatto.

Esiste dunque un bene universalmente condiviso? Dov’è il limite allo sporcarsi le mani? La giustificazione morale regge solo se il bene è autenticamente comune, riconosciuto e accettato da tutti. Ma questa è condizione rara, se non impossibile.

Chi decide cosa è giusto?

Rawls (1971) offre una risposta: il velo di ignoranza, un esperimento mentale che ci impone di formulare le regole della convivenza prima di sapere quale posizione occuperemo nella società.

Applicato alla guerra, mostra che non esiste una guerra giusta, solo guerre di parte⸺dipende tutto da dove si nasce. Le sanzioni economiche che strangolano un paese sono strumenti di pressione per chi le impone, ma un atto di guerra per chi le subisce. La difesa dei valori occidentali, narrata da alcuni come lotta per la libertà, per altri è solo l’ennesima imposizione culturale.

E qui arriva una delle lezioni più brutali della storia: quando il potere è in gioco, la giustizia diventa irrilevante.

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Il generale libico Osama Almasri, definito dalla Corte Penale Internazionale (Cpi) come il capo delle strutture carcerarie a Tripoli. È sospettato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, inclusi omicidio, tortura, stupro e violenza sessuale, che sarebbero stati commessi in Libia a partire da febbraio 2015. (Space 24)

Lo dimostra Tucidide nel dialogo dei Melii (V sec. a.C.). Durante la guerra del Peloponneso, gli Ateniesi⸺in nome della democrazia⸺offrono ai Melii un ultimatum: arrendersi o essere distrutti. Non cercano giustificazioni morali. Sono brutali e chiari: tra forti e deboli la giustizia non esiste, esiste solo la legge del più forte. I Melii⸺in nome della libertà⸺pur sapendo di non poter vincere, si rifiutano di sottomettersi, confidando nell’aiuto di Sparta e degli dèi. Gli aiuti non arrivano. Gli Ateniesi massacrano gli uomini, riducono in schiavitù donne e bambini, e si prendono l’isola.

La guerra è giusta per chi ne trae vantaggio, ingiusta per chi la subisce.

Platone, con il mito della caverna (Repubblica, IV sec. a.C.), ci avverte: chi controlla la percezione della realtà controlla le menti. Machiavelli e Foucault giungono alla stessa conclusione: l’autorità non si impone solo con la forza, ma attraverso il dominio delle narrazioni. Secondo Foucault (1977), la realtà non è un fatto oggettivo, ma una costruzione modellata da chi detiene il potere. Il controllo sociale non si esercita solo con le leggi o la coercizione, ma attraverso il linguaggio e le verità presentate come assolute.

Cui prodest? La domanda essenziale che tutti evitano

La guerra ha sempre dei beneficiari. Prima di accettare una narrazione, bisogna porsi la domanda essenziale: “Cui prodest”? A chi giova?

Non basta chiedersi chi vincerà. Il vero nodo è definire il presunto “bene comune” in nome del quale ci si sporcherà le mani⸺e capire chi ne beneficerà al momento della pace, sempre che ci si arrivi. Perché è raro che le guerre risolvano i problemi per cui sono iniziate. Atene distrusse Melo per asserire la propria forza e imporre la democrazia, ma pochi decenni dopo cadde sotto Sparta. Roma annientò Cartagine, ma non fermò il declino della Repubblica. Le Crociate miravano a riconquistare la Terra Santa, ma alimentarono secoli di ostilità tra cristiani e musulmani.

Ogni guerra pretende di chiudere un capitolo, ma finisce per scrivere il prologo della successiva. I conflitti si incancreniscono, si autoalimentano, preparano il terreno per nuove guerre.

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Un bambino palestinese vicino alle macerie di un edificio distrutto durante l’offensiva israeliana, durante il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, 5 febbraio 2025. REUTERS/Hatem Khaled

L’Iraq è stato destabilizzato da un’invasione presentata come crociata per la democrazia. L’Afghanistan, dopo vent’anni di occupazione, è tornato esattamente nelle mani di chi si voleva sconfiggere. La Libia, liberata da Gheddafi, è sprofondata nel caos delle milizie. La Siria, devastata dalla guerra civile e dagli interessi di potenze straniere, resta una ferita aperta. Il conflitto in Yemen, nato come guerra locale, è diventato una battaglia per procura tra Arabia Saudita e Iran.

Se il fine della guerra fosse la pace, perché ogni guerra genera solo le premesse per la successiva? La risposta è ovvia: perché il fine della guerra non è mai la pace. È il potere.

Lucidità e responsabilità: doveri di cittadino

Si può fare poco, ma quel poco è essenziale.

– Rendersi conto. Una guerra si definisce giusta solo se fondata su un bene comune che ne giustifichi i costi morali. Ma cosa succede quando quel bene non è davvero comune? Quando è solo una formula vuota, ridefinita da chi la usa per il tornaconto di pochi? Una guerra può dirsi giusta solo se il bene superiore che la motiva è chiaro, condiviso e autentico. Altrimenti, è solo un altro conflitto di parte, come tutti gli altri. Platone ci avverte: chi confonde le ombre con la realtà non vede il gioco del potere.

– Pensare con la propria testa. Le guerre non iniziano con le armi, ma con le narrazioni. Non servono eserciti per scatenarle: basta un’idea ripetuta abbastanza volte da sembrare una verità. Accettare il discorso pubblico senza metterlo in discussione significa già farne parte. Se il bene comune viene imposto e non discusso, è solo l’interesse di pochi mascherato da necessità collettiva. Pensare con la propria testa è un atto politico. La presa di coscienza è il primo passo.

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Un bambino mette un giocattolo su una bara mentre saluta Dmytro Yavorskyi, 37 anni, Sofia Yavorska, 9 anni, Olena Yavorska 38 anni, uccisi il 1° febbraio da un attacco russo a un edificio residenziale, durante una cerimonia funebre a Poltava, Ucraina, mercoledì 5 febbraio 2025. (Foto AP/Evgeniy Maloletka)

– Togliere l’etichetta di “giusta” quando giusta non è. Bisogna denudare chi dalla guerra trae vantaggio, smascherare la retorica che giustifica l’ingiustificabile, distinguere il bene comune dichiarato da quello reale. La lucidità non è cinismo, è consapevolezza. La politica non è un campo per anime pure, ma un’arena di compromessi morali. Il punto non è negarlo, ma riconoscerlo, senza farsi trascinare dalla retorica. Rawls ci dice che la giustizia nasce solo quando si spogliano gli interessi di parte.

Tutto questo richiede una cittadinanza attiva e consapevole. Se invece di schierarci d’istinto, cominciassimo a interrogarci? Se invece di chiederci chi ha ragione, ci chiedessimo chi sta manipolando il concetto stesso di ragione?

E se Creonte e Antigone avessero negoziato un bene comune per cui sacrificarsi, anziché distruggersi a vicenda? Quante guerre eviteremmo se smettessimo di accettarle come inevitabili?

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Su LinkedIn: Alessandro Magnoli Bocchi

BIBLIOGRAFIA

  • – Augustine of Hippo, 2008. Saint Augustine: Confessions. Translated by H. Chadwick. Oxford: Oxford University Press.
  • – Foucault, M., 1977. Discipline and Punish: The Birth of the Prison. Translated by A. Sheridan. Pantheon Books, New York. Online: https://archive.org/details/disciplinepunish0000fouc_j5k6/page/n5/mode/2up
  • – Foucault, M., 2007. “What is Critique?” and “What is Enlightenment?”, in M. Foucault, The Politics of Truth, ed. by M.S. Lotringer and L. Hochroth, Los Angeles, Semiotext(e), 2007, pp. 41-83.
  • – Machiavelli, N., 1532 (translated in 1961). The Prince. Translated by W.K. Marriott, New York: The Penguin Classics, Penguin, 1961.
  • – Plato, IV secolo a.C., 2008. The Republic. Translated by R. Waterfield. Oxford World’s Classics, Oxford University Press. Online: https://global.oup.com/academic/product/republic-9780199535767 and https://classics.mit.edu/Plato/republic.html
  • – Plato, IV secolo a.C., 1993. The Apology. Translated by H. Tredennick. Penguin Classics, May 27, 1993.
  • – Rawls, J., 1958. “Justice as Fairness”. The Philosophical Review, 67(2), 164–194. Online: https://doi.org/10.2307/2182612
  • – Rawls, J., 1971. A Theory of Justice. Cambridge, MA: Harvard University Press.
  • – Sophocles, 2001. Antigone. Translated by P. Woodruff. Hackett Publishing Company, Inc., Indianapolis/Cambridge.
  • – Tucidide, V secolo a.C., 1996. La guerra del Peloponneso (Περ το Πελοποννησίου πoλέμου, Perí toû Peloponnēsíou polémou). Edizione con testo greco a fronte a cura di Luciano Canfora, Collana Biblioteca della Plèiade n.20, Einaudi, Torino, 1996, Collana I Classici Collezione, 2 voll., Mondadori, Milano, 2007. Online: https://laguerradelpeloponneso.wordpress.com/
  • – Walzer, M., 1973. “Political Action: The Problem of Dirty Hands”, Philosophy and Public Affairs, vol. 2, n. 2, 1973, pp. 160–180.
  • – Walzer, M., 1977. Just and Unjust Wars: A Moral Argument with Historical Illustrations. Basic Books Classics Series, 1977.

NOTE

[1] La guerra è ovunque. Commerciale, politica, culturale. Invisibile nelle cause, pervasiva negli effetti.

La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina ha ridefinito la globalizzazione: da promessa di interdipendenza a scontro per la supremazia. Washington impone dazi e restrizioni, Pechino risponde con contro-sanzioni e politiche industriali aggressive. L’Europa, senza una strategia chiara, oscilla tra l’illusione dell’autonomia strategica e la realtà della dipendenza commerciale.

Sul piano geopolitico, il mondo è un mosaico di tensioni in cui si intrecciano interessi nazionali e interferenze esterne. La guerra in Ucraina ha riattivato logiche da Guerra Fredda, avvicinando Mosca a Pechino e Teheran. Il conflitto israelo-palestinese non è solo una tragedia locale, ma un nodo geopolitico globale in cui si ridefiniscono⸺al ribasso⸺l’ordine internazionale e i diritti umani. In Yemen, Iran e Arabia Saudita si affrontano per procura in una guerra dimenticata, causa di una delle peggiori crisi umanitarie del secolo. Nel Mar Cinese Meridionale, la militarizzazione delle isole e le dispute territoriali tra Pechino e i suoi vicini aumentano il rischio di scontro con gli Stati Uniti, in un’area dove transita il 30% del commercio mondiale.

La guerra culturale è meno visibile, ma altrettanto feroce. Si combatte per il controllo del significato delle cose. Negli Stati Uniti, la cancel culture e le guerre identitarie riflettono uno scontro più ampio sulla memoria, i valori e la storia. In Europa, il dibattito su decolonizzazione, sovranità e wokeismo polarizza conservatori e progressisti. La Cina, con il Great Firewall, costruisce una realtà filtrata per un miliardo di persone. La Russia di Putin riscrive la storia in chiave neoimperiale per legittimarsi.

Anche l’informazione è un campo di battaglia. Fake news, propaganda, deepfake e algoritmi selettivi modellano l’opinione pubblica più delle bombe.

[2] La filosofia politica distingue tra jus ad bellum, jus in bello e jus post bellum.

Il jus ad bellum definisce quando è legittimo iniziare una guerra. I criteri tradizionali includono una causa giusta (difesa da un’aggressione, protezione di innocenti), l’autorità legittima che la dichiara e il fatto che la guerra sia l’ultima risorsa possibile.

Il jus in bello stabilisce come la guerra deve essere condotta, limitando violenze inutili, proteggendo i civili e regolando l’uso delle armi. In teoria, anche in guerra ci sono regole. In pratica, sono spesso infrante o applicate in modo selettivo.

Il jus post bellum affronta la giustizia dopo la guerra: chi gestisce la ricostruzione? Come si puniscono i crimini? Come si impedisce che il conflitto si ripresenti sotto nuove forme? Spesso questa fase viene trascurata, con esiti disastrosi.

In teoria, queste tre categorie dovrebbero garantire che le guerre siano giuste. In realtà, vengono spesso usate più per giustificarle che per evitarle.