categoria: Vicolo corto
Tutti scienziati! L’antidoto alla sfiducia (anche nella politica)
Post di Valter Fraccaro, Presidente Fondazione SAIHUB (Siena Artificial Intelligence HUB) –
Fiducia nel domani e credibilità della conoscenza precipitano come stelle gemelle sulla linea dell’orizzonte Occidentale. L’idea diffusa che il futuro sarà comunque peggio del cattivo presente non è il ricorsivo e plurisecolare rimpiangere tempi andati e favolosi, ma una serpeggiante sensazione che si trasmette e consolida ogni volta che viene ripetuta, distante dalla realtà dei fatti, ma certezza nell’ineffabile spirito di chi si sente sempre meno attivo partecipe della costruzione di ciò che verrà.
La scienza e la sua versione pratica, la tecnica, hanno attraversato il cielo delle ultime decadi a una velocità mai vista prima, tanto da fare assumere un carattere retrò persino alla parola “innovazione”, come se il concetto stesso stesse sfumando, lacerandosi in un filamento sottile che tutto occupa e tutto trasforma quotidianamente.
La stessa continuità con cui la tecnologia muta più rapidamente di quanto si riesca a descrivere ha dato a molti la percezione di un fenomeno fuori controllo, messianico di un giorno che ci si troverà a vivere senza sapere come si è arrivati sin lì, indirizzo nuovo che a nessuno pare di aver chiesto e tantomeno deciso.
È la paura che riguarda qualcosa fatto da altri, un qualcosa di cui non si ha percezione di essere creatori ma solo forzati utenti. Da questo la sfiducia, l’idea che quella “cosa d’altri” chiamata sapere sia uno strumento che una casta usa contro il gran numero di persone, la “gente” declamata e reclamata da ogni populismo, da ogni interessato retore che definisce democrazia il decidere tutti insieme cosa sia vero e cosa no, indipendentemente dalle prove, dall’evidenza sperimentalmente rilevata.
La stessa sfiducia usa per gli assunti scientifici il termine “ufficiale” come denigratorio, sicura che esista una scienza migliore, che è migliore solo per il fatto in sé di essere “alternativa”, essendo quella “ufficiale” implicitamente falsa perché votata ad un oscuro controllo della libertà di pensiero.
Tragico destino, pensando che il “metodo scientifico” nato nel ‘600 abbatté proprio quel principio di autorità secondo cui una affermazione era vera perché proveniva da qualcuno o qualcosa cui quella certa attendibilità era ampiamente dovuta. Il metodo scientifico mostrò così bene quella fallacia logica che ai primi del ‘900 un impiegato dell’ufficio brevetti di Berna, privo di qualsiasi precedente autorevolezza, Albert Einstein, poté cambiare radicalmente l’idea che l’uomo aveva dello spazio, del tempo e dell’universo tutto.
A quel rigore a portata di tutti, molti ora preferiscono il puro esercizio di un’opinione preconcetta (“è vero perché non è ufficiale”) o di un’altra fallacia interpretativa (“la mia opinione vale come le tue prove, altrimenti non esiste libertà”). Il tutto spesso condotto fino ad essere attacco alla persona, non discussione delle sue ipotesi, come se “verità” fosse ciò che ha deciso il più forte o quello più simpatico.
Insomma, per chi non vi è direttamente coinvolto, esiste un mondo di pochi intoccabili che comandano in virtù dei loro armeggi di casta, contrapposto ad un mondo reale in cui esiste solo la difficoltà incombente di vivere, di trascinare il pesante fardello del giorno proprio e dei cari più prossimi, isolati e vittime.
Si può ricucire questo strappo?
I problemi complessi non hanno soluzioni semplici e questo non fa eccezione, purtroppo.
Di recente Hannah Fry, eccellente matematica e divulgatrice inglese, ha rilasciato una dichiarazione illuminante: “Se si costruiscono cose che finiscono per avere un impatto sulla vita della gente, allora si ha l’obbligo morale di assicurarsi di coinvolgere le persone nella progettazione e nell’utilizzo, in modo che esse capiscano e siano partecipi di questo viaggio, perché penso che tutti vogliano sentire che la scienza viene fatta con loro e non per loro.”
La condizione in cui la scienza, e più in generale la conoscenza, può meglio essere avvertita da tutti come patrimonio comune non è la sua disponibilità in questa o quella forma, ma il farla, il partecipare al suo attivo sviluppo, poiché tutti sentiamo come reali le cose che ci accadono, mentre ogni approccio mediato dalla comunicazione è in qualche modo fideistico e contro la fede, si sa, le spiegazioni razionali sono insufficienti e addirittura controproducenti, come dimostrato dal lavoro di indagine sui social di ricercatori come Walter Quattrociocchi e il suo team.
È realmente possibile includere tante persone nella pratica della ricerca, sia nella scienza che nelle discipline non sperimentali? Certo esistono occasioni per farlo, come la cosiddetta “citizen science”, cioè quella parte di lavoro di indagine, come la raccolta di informazioni, che può essere effettuata da individui comuni senza qualificazioni speciali, ma il piacere di studiare, capire, cercare e trovare è possibile provarlo anche in altri modi.
La gioia della scoperta non è legata alla sua originalità assoluta, ma deriva dal fatto di poter capire qualcosa che prima accadeva senza spiegazione ed è per questo che i bimbi si illuminano di felicità e stupore ogni volta che intuiscono come avviene un evento.
È una sensazione talmente gratificante per la nostra mente che sono proprio i più piccoli a chiedere ossessivamente “perché?”.
Lo sperimentare di persona è avanzare progressivamente verso il concetto, passando attraverso l’operare manuale e l’osservazione del rapporto tra causa ed effetto, due forme di consapevolezza che precedono la comprensione rendendola sensibile e generalmente definitiva.
In questo caso, il rapporto con la scienza diventa forma abituale di relazione con ciò che è fino a quel momento sconosciuto, e smette di essere vissuta come imposizione di verità declamate da altri.
Può bastare questo per ribaltare gli attuali meccanismi di (s)valutazione del dimostrabile e pian piano far apprezzare i risultati e le ricadute della scienza e della tecnologia?
Probabilmente no, nemmeno cominciando all’istante, ma appare chiaro che solo l’esperienza diretta dello scientiam facere e lo spirito critico costruito da sé, con le proprie mani, pensieri e conclusioni, può ridurre il pericolo che la complessità crescente dei meccanismi sociali planetari demoralizzi, spaventi e poi allontani chi non se ne sente parte in causa.
Come la pratica empirica può costituire il prodromo ad una giusta valutazione della scienza, così quella nella politica che, stella binaria, sta anch’essa percorrendo la medesima traiettoria che porta al discredito e all’abbandono.
Se si vuole che le democrazie escano da questa fase di crisi fiduciaria, appare necessario che scienza e politica siano sperimentabili da chiunque, anche nelle forme più semplici, perché proprio quella consapevolezza personale le dimostra reali, credibili e capaci insieme di dare forma al futuro, quello prossimo poi dei figli e dei nipoti.