categoria: Draghi e gnomi
Europa e migrazioni, le due scelte per frenare le spinte nazionaliste
Post di Francesco Giampà (Avvocato specializzato in Immigrazione e protezione internazionale, operatore legale SAI – Sistema Accoglienza e Integrazione) e Simone Moriconi (Professore di Economia presso IÉSEG School of Management e direttore del Centro di Ricerca IÉSEG sull’Economia della Famiglia, il Lavoro e la Migrazione) –
La recente impossibilità per il governo italiano di trasferire profughi nel nuovo centro di accoglienza in Albania evidenzia come la sentenza della Corte di Giustizia Europea – relativa al caso C-406/22 – sull’interpretazione dell’art. 37 della Direttiva 32/2013 (che sancisce la possibilità per gli Stati membri UE di designare Paesi di origine sicuri) stia avendo un impatto significativo sulle politiche migratorie dei Paesi dell’Unione Europea, e più in generale sulle posizioni politiche dei governi nazionali in materia di immigrazione.
La decisione della Corte nel caso C-406/22 ha ristabilito la corretta interpretazione della normativa esistente, che fino a quel momento i Paesi membri avevano applicato con un eccessivo margine di discrezionalità nelle politiche migratorie e di accoglienza, generando disparità di trattamento tra richiedenti asilo provenienti dagli stessi Paesi di origine.
Come sottolineato da EUAA (2022), fino a oggi i governi europei hanno potuto utilizzare la normativa interna in tema di politica migratoria in maniera discrezionale, per ampliare il concetto di “Paese sicuro”, piuttosto che basarsi su criteri oggettivi legati alla sicurezza del Paese di origine dei rifugiati. Prima della sentenza era abbastanza frequente che un paese di origine potesse essere considerato sicuro da alcuni paesi Europei ma non da altri.
Ciascun paese Europeo poteva inserire nella lista dei paesi sicuri anche paesi che palesemente non lo erano, in base a considerazioni di convenienza politica nazionale. Per esempio, l’Italia aveva inserito nella sua lista la Nigeria, la Colombia, il Camerun, considerati invece non sicuri da paesi come Francia, Belgio, ed Olanda. Appare evidente come questa pratica favorisse politiche incoerenti nell’ambito dell’Unione Europea, e creasse disparità di trattamento tra richiedenti asilo nelle diverse destinazioni Europee.
La recente sentenza della Corte ha avuto l’effetto di consentire ai giudici nazionali di disapplicare la normativa interna quando un paese non è effettivamente sicuro. La sentenza ha ribadito che un Paese non può essere considerato “sicuro” a meno che non offra garanzie uniformi e generalizzate di sicurezza, senza distinzioni territoriali o di categorie di persone. Questo restringe la possibilità per i singoli Stati di adottare politiche autonome rispetto al resto dell’Unione in materia di respingimenti e rimpatri, nonché di applicare procedure accelerate per richiedenti asilo provenienti da determinati Paesi.
Se da un lato, l’applicazione di questa sentenza contribuisce ad eliminare difformità di valutazione tra paesi, e ristabilire un trattamento equo delle richieste di asilo in seno all’Unione Europea, è peraltro evidente come la stessa possa essere invisa ai governi di destra nazionalista che hanno spesso attuato politiche migratorie restrittive a livello nazionale.
Sebbene non sempre efficaci per contrastare il fenomeno migratorio, queste politiche hanno generato un forte impatto mediatico sull’opinione pubblica europea preoccupata delle dimensioni complessive del fenomeno migratorio. Non sorprende neanche che recentemente leader politici di destra italiani (ma anche stranieri come Orban e Musk) abbiano criticato la magistratura Italiana per aver applicato la direttiva europea.
Nel concreto, il nuovo contesto giuridico e politico apre delle nuove sfide in tema di politica migratoria. Il mancato trasferimento dei migranti dall’Italia all’Albania offre un chiaro esempio di come l’applicazione della sentenza della corte Europea, limitando le possibilità di rimpatrio da parte dei governi nazionali, possa far aumentare il numero di richiedenti asilo fisicamente presenti sul territorio nazionale dei paesi Europei. Le conseguenze a medio termine di questo fenomeno sono difficili da prevedere.
Da un lato, l’Unione potrebbe ritrovarsi indebolita sotto la pressione dei partiti di destra e populisti, che accusano l’Europa di non contrastare abbastanza l’immigrazione irregolare, rivendicando una sovranità nazionale esclusiva in materia di immigrazione. Dall’altro, l’Unione potrebbe emergere più forte se riuscisse a formulare proposte di politica migratoria condivise e convincenti, tese a rafforzare la cooperazione tra paesi Europei (Bordignon e Moriconi, 2017).
Due linee di sviluppo potrebbero essere efficaci in tal senso. La prima riguarda il potenziamento di politiche migratorie che puntino sulla regolamentazione coordinata dei flussi e degli ingressi regolari di immigrati economici nei paesi Europei, con l’obiettivo di aumentare le quote di immigrati regolari in Europa. Infatti, la legislazione vigente in molti paesi Europei fa si che l’offerta di lavoro immigrato non possa essere tale da soddisfare la domanda di lavoro delle imprese europee, nonostante questa risulti particolarmente elevata.
Per fare qualche esempio, in Francia la “Loi Immigration” del 2023 ha inserito per la prima volta delle “quote” per limitare l’immigrazione regolare. In Italia, le quote esistono già dagli anni 90 (introdotte dalla legge n. 39/1990, c.d. “legge Martelli”), e sono sempre di gran lunga inferiori alle domande di ingresso presentate. Nel 2023 sono state inviate 462.422 richieste di ingresso regolare a fronte di 82.705 posti disponibili. Una migliore e più omogenea regolamentazione dei flussi da paesi non sicuri, ridurrebbe la pressione dell’immigrazione irregolare, e favorirebbe l’integrazione degli immigrati nel tessuto sociale europeo.
La seconda linea di sviluppo della politica migratoria europea dovrebbe riguardare proprio l’integrazione economica e sociale degli immigrati irregolari nel paese di destinazione. Su questo tema non bisognerebbe partire da zero. Delle best practices sono già emerse in Europa dal basso su impulso di sindaci di piccole realtà locali, provenienti da schieramenti politici di destra e sinistra. Queste misure hanno in comune un approccio molto concreto e pratico sull’immigrazione, che ne valorizza i potenziali benefici per lo sviluppo locale.
In Italia il sindaco Domenico Lucano ha ideato il modello Riace. Questo introduce un’integrazione diffusa tramite mediatori culturali, una “moneta virtuale” per sopperire ai ritardi nei fondi, la preservazione delle scuole a rischio chiusura, la riqualificazione di immobili abbandonati in alberghi solidali, il rafforzamento sanitario con un ambulatorio gratuito, la rinascita di attività artigianali e commerciali grazie agli immigrati e una fattoria didattica dove locali e migranti collaborano in modo sostenibile.
In Belgio si è invece sviluppato il modello Mechelen, su impulso del sindaco conservatore Bart Somers, che ha creato tra le altre cose un servizio di tutoring da parte dei nativi per i rifugiati, avente per obbiettivo migliorare l’integrazione dei rifugiati nel tessuto economico e sociale locale. Questo modello appare uno strumento efficace anche per ridurre il timore e pregiudizio dei nativi nei confronti degli immigrati, stabilendo un contatto diretto, in linea con l’evidenza offerta da studi economici sul tema (Allport, 1954).
I risultati eccellenti di queste ed altre politiche locali in termini di inclusione ci portano a chiederci se tali queste non possano essere rielaborate in chiave sovranazionale ed Europea. Non è cosi utopico se si pensa che nel 2017 Mechelen è stata scelta come sede della Conferenza Globale sulle Città e l’Immigrazione, che ha prodotto la “Mechelen Declaration on cities and immigration” ratificata dall’ Organizzazione Internazionale per l’Immigrazione (IOM) delle Nazioni Unite.
Segnali recenti suggeriscono invece che le spinte nazionaliste possano prevalere in tema di politica migratoria europea. In particolare, il Patto Europeo sulla Migrazione e l’Asilo del maggio 2024 reintroduce (a partire dal 2026) la possibilità di fare un distinguo tra zone e categorie di persone. Questo patto è frutto di un compromesso sulla spinta dei nuovi governi nazionalisti che sembra faccia fare il passo del gambero all’Europa in materia di immigrazione. Il fallimento del modello Albania proposto del governo Meloni dovrebbe fungere da monito per l’Ue a non muoversi in questa direzione.
Bibliografia
Bordignon, M., & Moriconi, S. (2017). The Case for a Common Refugee Policy. Bruegel, 13.
EUAA, dicembre 2022, “Applying the concept of safe countries in the asylum procedure”
Allport G.W. (1954) The Nature of Prejudice Addison-Wesley, Reading