categoria: Vicolo corto
L’Italia e i (pochi) figli: il congedo parentale è la soluzione?
Spesso ci chiediamo cosa significhi essere un buon genitore e la risposta potrebbe essere più semplice di quanto sembri: trascorrere del tempo di qualità con i propri figli. Tuttavia, in Italia, essere genitori è spesso percepito come un ostacolo, soprattutto per le donne, che subiscono la nascita di un figlio come una potenziale barriera alla carriera, a una promozione o perfino alla stabilità professionale. La bassa natalità e il basso tasso di occupazione femminile nel nostro paese sono sintomi di una realtà in cui fare figli può costare, professionalmente parlando, molto caro.
Le statistiche Istat parlano chiaro: il tasso di fecondità in Italia, ovvero il numero medio di figli per donna, oscilla tra 1,3 e 1,4, ben al di sotto del tasso di sostituzione di 2,1 necessario per mantenere la popolazione. Sul fronte dell’occupazione femminile, il divario tra uomini e donne è del 16-17%, circa 6-7 punti percentuali in più rispetto alla media Ocse, e aumenta ulteriormente se si considera l’occupazione a tempo pieno.
Questi dati riflettono dinamiche familiari e lavorative che vedono una distribuzione diseguale dei ruoli genitoriali, con le madri che tendono ad allontanarsi dal lavoro per periodi più lunghi rispetto ai padri per dedicarsi alla cura dei figli. Le ragioni di questa disuguaglianza sono molteplici, radicate in fattori sia economici che culturali. Tuttavia, un aspetto cruciale da considerare riguarda gli strumenti messi a disposizione dallo Stato a sostegno della genitorialità. Attualmente, solo il 28,6% dei bambini tra 0 e 2 anni frequenta l’asilo nido, un dato ben al di sotto della media europea del 34%.
In Italia congedo parentale appannaggio quasi esclusivo delle madri
Per supportare le famiglie durante il primo anno di vita del bambino, in Italia esiste il congedo parentale, un periodo facoltativo di astensione dal lavoro parzialmente retribuito, accessibile a entrambi i genitori. Tuttavia, i dati INPS rivelano una preoccupante realtà: questo strumento viene utilizzato quasi esclusivamente dalle madri, accentuando così il divario di genere sia in ambito familiare che lavorativo. Un elemento cruciale da considerare nel contesto del congedo parentale è la sua retribuzione parziale, che, dopo un certo periodo, si riduce al 30% dello stipendio. Questo aspetto è determinante, poiché spinge molte madri, già in congedo di maternità, a prolungare il periodo di cura, accettando una significativa riduzione del proprio reddito.
La scelta di affidare la cura dei figli alle madri è spesso dettata da ragioni economiche, poiché le donne tendono a percepire redditi inferiori rispetto agli uomini. Inoltre, vi è un retaggio culturale radicato che associa la genitorialità alla maternità, sostenuto da una cultura patriarcale, che ha portato a politiche di supporto alla genitorialità prevalentemente focalizzate sulle madri. Questo sistema non offre incentivi per promuovere una genitorialità condivisa, scaricando invece sulle donne il peso del gravoso compito di cura dei figli.
Congedo di paternità obbligatorio retribuito: Italia in coda
L’Italia, inoltre, si colloca agli ultimi posti in Europa per quanto riguarda la durata del congedo di paternità obbligatorio retribuito al 100%, con soli 10 giorni, un periodo nettamente inferiore rispetto a Paesi come Spagna, Portogallo e Finlandia. A peggiorare la situazione, solo il 65% dei padri aventi diritto usufruisce del congedo di paternità INPS, nonostante la retribuzione completa e il carattere formalmente obbligatorio del congedo. Questa apparente contraddizione si spiega in parte con il fatto che molti padri scelgono di non dichiarare la propria paternità al datore di lavoro, approfittando della scarsa applicazione di sanzioni o controlli, a differenza delle madri, che non possono evitare tale dichiarazione.
Per i padri, inoltre, il congedo di breve durata risulta spesso poco pratico: non è sufficiente per consentire una reale redistribuzione delle responsabilità lavorative all’interno dell’azienda, limitandosi a posticipare i compiti accumulati durante i giorni di assenza. In questo contesto, l’Italia scarica quasi interamente il peso della cura dei figli sulle madri, offrendo pochissime alternative come gli asili nido, una situazione particolarmente critica nel Sud del Paese. Al contempo, non vengono messe in atto politiche efficaci per incentivare una maggiore partecipazione dei padri alla genitorialità, perpetuando così un modello profondamente squilibrato.
Studio Tortuga: dalla motivazione al tasso di adesione in 22 grandi aziende
Eppure, uno studio del think-tank Tortuga offre una prospettiva diversa e più positiva: alcune grandi aziende italiane hanno iniziato a promuovere la genitorialità condivisa con misure integrative rispetto a quelle previste dalla legge. Tortuga ha intervistato 22 aziende che hanno esteso il congedo retribuito al 100% per i padri, dimostrando che, a volte, il mondo aziendale è più avanti della politica.
Il report ha analizzato le motivazioni che hanno spinto queste aziende a introdurre tali misure e i benefici riscontrati. Intervistando responsabili delle risorse umane e analizzando i risultati di un questionario inviato ai dipendenti, è emerso che un congedo di paternità più lungo ha un duplice effetto positivo: permette ai padri di essere più presenti nella vita dei figli e supporta le madri in un momento delicato della loro vita personale e lavorativa. Alcune persone delle risorse umane hanno anche osservato che l’aumento del congedo di paternità può ridurre il cosiddetto “pregiudizio della maternità” nelle valutazioni per le promozioni, poiché anche i padri possono assentarsi per periodi prolungati.
I padri più giovani aderiscono di più al congedo…
Il questionario per i dipendenti riporta che il tasso di adesione al congedo di paternità obbligatorio tra i lavoratori idonei è del 71%, una percentuale superiore alla media nazionale relativa al congedo INPS. I risultati evidenziano che i fattori correlati all’adesione sono: l’età (i padri più giovani aderiscono di più al congedo), il lavoro in presenza (chi non può lavorare da remoto aderisce di più), e le norme di genere all’interno dell’azienda (chi ritiene che la donna sia la principale responsabile della cura dei figli aderisce di meno).
Dal questionario emerge anche le ragioni che portano i dipendenti ad usufruire di questo congedo: lo fanno per essere vicini alla famiglia! L’87% dei beneficiari dichiara che desidera sostenere il partner nel primo anno di vita del bambino, mentre l’81% vuole essere presente nella vita dei figli.
… ma un padre su quattro viene disincentivato
Tra coloro che non sfruttano l’intero periodo di congedo, i motivi principali sono le pressioni lavorative, come l’alto carico di lavoro (45%), la presenza di colleghi che non hanno usufruito del congedo (55%) e la paura di conseguenze negative per la carriera (45%). Anche chi non ha usufruito del congedo aziendale indica come motivazione la pressione dell’ambiente lavorativo e il timore di impatti negativi sulla carriera (54%) o la scelta di altri colleghi di non utilizzare il congedo (52%).
I risultati evidenziano che quasi un padre su quattro che ha usufruito del congedo si è sentito scoraggiato da partner, amici, parenti, colleghi o superiori. Questo dato merita una lettura particolarmente attenta, soprattutto considerando che le aziende analizzate sono considerate modelli di inclusione a livello nazionale, rappresentando delle eccellenze nel panorama italiano. Se persino in queste realtà il 23% dei padri ha subito disincentivi nell’utilizzo del congedo, è lecito supporre che tale percentuale aumenti significativamente in contesti meno strutturati, come le aziende medio-piccole, dove la sostituzione o la redistribuzione del lavoro risulta spesso complessa.
Effetti del congedo sulla carriera, secondo i padri
Tuttavia, emergono anche dati positivi: due padri su tre affermano che il congedo ha contribuito a migliorare l’equilibrio nella divisione del lavoro domestico. Inoltre, il 96% dei beneficiari ritiene che il congedo abbia rafforzato il legame con i figli, mentre il 95% osserva un miglioramento del benessere della partner nel periodo post-nascita. Un ulteriore aspetto interessante è che il 54% dei padri trova più semplice pensare a un secondo figlio. Infine, il dato forse più rilevante è che sette padri su dieci non hanno riscontrato effetti negativi sulla propria carriera, nonostante tra le motivazioni per non usufruire del congedo emerga spesso il timore di dover affrontare momenti di intensa attività aziendale o il fatto che colleghi e superiori non abbiano dato l’esempio.
Un elemento cruciale emerso dai colloqui con i responsabili delle risorse umane è l’importanza del role modeling: nelle aziende dove i superiori hanno usufruito del congedo per periodi prolungati, si è registrato un effetto spillover positivo, che ha legittimato e incoraggiato anche altri dipendenti a fare lo stesso. Questo suggerisce che una simile pratica potrebbe essere facilmente incentivata attraverso una legge nazionale che promuova attivamente l’utilizzo del congedo parentale.
Un congedo esteso a livello nazionale?
Non sorprende, quindi, che quasi tutti i partecipanti al sondaggio (96%) siano favorevoli all’introduzione di un congedo esteso a livello nazionale e che oltre la metà (54%) ritenga che dovrebbe essere obbligatorio, con una percentuale ancora maggiore tra i giovani. Questo dato è coerente con il fatto che tutti i padri che hanno già usufruito del congedo dichiarano che lo riutilizzerebbero, mentre il 96% di coloro che non lo hanno ancora fatto si dichiara pronto a farlo in futuro.
Il messaggio del report è chiaro: si può fare di più! Un modello di genitorialità condivisa ha dimostrato di avere effetti positivi e rappresenta un passo necessario verso un futuro in cui avere figli non significhi rinunciare a opportunità professionali.