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Work-life balance, mantra della Gen Z. Ma in Italia è un miraggio
Post di Matteo Musa, CEO e Co-Founder di Fitprime –
Il work-life balance è il mantra dei giovani che si approcciano al mondo del lavoro. Ma siamo sicuri da un lato che sia davvero raggiungibile e dall’altro che sia questo il tema da tenere sotto la lente? La risposta è probabilmente deludente. Il modello di lavoro in Italia non funziona a dovere. Stipendi bassi (ben al di sotto della media Ocse), scarsa flessibilità e diritti acquisiti superati dalla storia, produttività infima.
Elementi che negli anni hanno provocato la fuga di cervelli e di pezzi di Pil, nell’indifferenza generale. In questo contesto, difficilmente riusciremo a creare ambienti in cui i giovani possano conciliare il lavoro con la loro vita personale in modo soddisfacente. Per la Generazione Z in particolare, i cui esponenti più anziani si avviano alla prima occupazione: cresciuti con l’idea che lavoro e vita debbano essere bilanciati, sono in cerca di flessibilità, stimoli e crescita. Ma si ritrovano invece davanti a un sistema carico di vincoli – che di fatto loro non cercano.
Giovani e lavoro: cosa si è inceppato?
Secondo una ricerca degli Stati Generali del Welfare, i giovani tra i 18 e i 34 anni si aspettano molto più che uno stipendio fisso. Il 72% di loro desidera un lavoro che permetta di esprimere sé stessi, avere un impatto e, soprattutto, lasciare spazio alla propria vita privata. Ma qui in Italia il problema è che il work-life balance non può esistere se il lavoro è, appunto, ingessato. Da un lato non basta promettere flessibilità sulla carta, se poi mancano le condizioni strutturali per farla funzionare davvero. Dall’altro i tentativi di introdurre formule di lavoro flessibili nel nostro Paese hanno avuto l’effetto di generare più che altro precarietà.
Secondo un rapporto di INPS il Jobs Act, che dal 2015 ha introdotto il contratto a tutele crescenti, ha reso più facile per le aziende licenziare, cercando di promuovere una maggiore flessibilità occupazionale. Tuttavia, i dati suggeriscono che l’effetto è stato misto: mentre c’è stato un iniziale aumento dei contratti a tempo indeterminato, la crescita della mobilità lavorativa non è stata così ampia come previsto, soprattutto in settori ad alto tasso di precarietà. In altre parole, il tentativo di normare la flessibilità è fallito perché di fatto ha dato luogo solo a maggior precarietà.
Un mercato del lavoro rigido, che fa male ai datori di lavoro e ai lavoratori
Così, dal punto di vista delle aziende, i processi di assunzione e licenziamento restano complicati: ed è particolarmente evidente nel caso della risoluzione dei contratti a tempo indeterminato, in cui le difficoltà legali e procedurali rendono il processo lungo e complesso non ché soggetto a rischi – come quelli legati alla durata di eventuali processi – che le piccole e microimprese italiane non sono in grado di sopportare.
Dal lato dei lavoratori, gli eccessivi vincoli in essere fanno sì che la mobilità lavorativa sia bassa. Il rapporto dell’OCSE sul mercato del lavoro italiano sottolinea che l’Italia è tra i Paesi europei con la maggiore rigidità del mercato del lavoro. Questo si riflette nella scarsa mobilità lavorativa e nell’alto livello di contratti temporanei e part-time involontari. Il rapporto rileva che solo il 14% dei lavoratori italiani cambia impiego ogni anno, contro il 20-25% della media OCSE.
Anche ISTAT, conferma che il tasso di mobilità professionale in Italia sia tra i più bassi in Europa. La scarsa mobilità geografica è una delle ragioni: solo il 3% dei lavoratori italiani è disposto a trasferirsi per motivi lavorativi, rispetto a una media europea del 10%. Inoltre, l’incertezza economica e la precarietà contrattuale rendono più difficile per i giovani entrare stabilmente nel mercato del lavoro o cambiare lavoro, contribuendo alla persistenza di una bassa mobilità sociale. I dati evidenziano anche che la mancanza di opportunità professionali nelle regioni del Sud Italia accentua ulteriormente questa situazione.
Bloccati in posti di lavoro che non corrispondono a competenze o aspirazioni
La sintesi di tutto questo discorso è che i dipendenti trovano spesso difficile cambiare lavoro o settore a causa di una combinazione di fattori, tra cui la mancanza di opportunità disponibili, la rigidità dei contratti e le disparità regionali nelle prospettive di impiego. Di conseguenza, molti si sentono bloccati in posti di lavoro che non corrispondono alle loro competenze o aspirazioni, che non garantiscono assolutamente il work-life balance. Inoltre, una parte significativa delle nuove assunzioni in Italia avviene tramite contratti temporanei, che non offrono la stabilità necessaria per uno sviluppo professionale a lungo termine. Queste rigidità nel mercato del lavoro, specialmente in relazione sia all’assunzione che alla mobilità lavorativa, contribuiscono al problema più ampio dell’immobilità economica nel paese, in cui i giovani affrontano difficoltà nel trovare un’occupazione stabile e appagante.
Contro gli stipendi più bassi d’Europa la ricetta è l’espatrio…
L’ultimo rapporto Ocse dal titolo Taxing wages 2024 OECD (2024), Taxing Wages 2024: Tax and Gender through the Lens of the Second Earner, OECD Publishing, Paris, evidenzia che lo stipendio medio annuo lordo in Italia è di circa 33.492 dollari, un valore che colloca il Paese al di sotto della media dei paesi OCSE, pari a 56.306 dollari. Ma non solo. Lo stipendio medio di spagnoli e francesi è di circa 48mila dollari, il 45% in più di quello degli italiani); i tedeschi guadagnano l’81,5% in più (con circa 60.900 dollari), per non dire degli statunitensi che hanno uno stipendio medio di oltre 67mila dollari, il doppio di quello di un italiano. Un divario che continua ad aggravarsi ed è destinato a peggiorare. Tra il 1991 e il 2022 i salari reali in Italia sono rimasti sostanzialmente al palo con una crescita dell’1% a fronte del 32,5% in media registrato nell’area Ocse, secondo le rilevazioni dell’ultimo Rapporto Inapp.
Ed è chiaro che questa significativa differenza nel potere d’acquisto e nelle condizioni economiche tra l’Italia e gli altri Paesi più sviluppati abbia innescato negli anni una violenta emorragia di cervelli.
…o l’autoimprenditorialità
Non tutti sono fuggiti, però. In tanti, soprattutto tra i giovani, hanno fatto di necessità virtù e sono diventati imprenditori. Un Focus Censis-Confcooperative – Il lavoro inventato e il nuovo “potere contrattuale” dei giovani | CENSIS mette in luce un fenomeno emergente. Non siamo più solo il Paese dei “Neet” (Not in Education, Employment or Training) ma quello degli “Eet” (Employed, Educated and Trained), giovani intraprendenti che decidono di fare impresa, creare lavoro. Sono ben 144.000 i giovani imprenditori italiani tra i 15 e i 29 anni, con un terzo di loro presenti nel Mezzogiorno. E i giovani occupati nel 2024 hanno superato quota 3 milioni: il 23,5% dei giovani occupati possiede una laurea o un titolo post-laurea, un aumento del 3,1% rispetto al 2019.
Parallelamente, si riduce la quota di giovani con solo la licenza media, scesa al 16,6% nel 2023. Insomma, di fronte ai malfunzionamenti del mercato del lavoro i giovani stanno reagendo in qualche modo. Tuttavia, non tutti diventeranno imprenditori. Ma in questa evoluzione c’è la risposta alla domanda chiave sul futuro del lavoro. La mentalità imprenditoriale è ciò che serve anche per chi continuerà a lavorare per altri, magari guardando con maggiore attenzione al work-life balance: anche come dipendenti, i giovani dovranno cercare di ragionare da imprenditori, con curiosità e impegno. Mettendosi alla prova, mostrando disponibilità a imparare, sbagliando e ripetendo, senza tirarsi indietro.
La sfida della retention e l’adozione di un modello americano
Da parte delle aziende, si fa a gara per accaparrarsi i talenti migliori. Il tentativo è quello di offrire sempre più benefit per attrarre e trattenere talenti. Welfare aziendale, smart working, orari flessibili: tutte iniziative che, se ben implementate, possono fare la differenza. Ma quello che si osserva è che, dopo sei mesi, la novità svanisce, i benefit diventano la norma e il livello di insoddisfazione torna a crescere. Perché? Una prima risposta di carattere generale a questa domanda è che manca una visione complessiva: spesso il tema dei benefit aziendali è affrontato sotto forma di iniziative isolate, di programmi e proposte frammentati, che non guardano al lavoratore a 360 gradi, al work-life balance, ma da un solo punto di vista.
Work-life balance in aziende che valorizzino tutti gli aspetti della persona
I giovani, che sotto questo aspetto sono lungimiranti, hanno capito che benessere lavorativo e benessere nella vita privata sono interdipendenti; dunque, la piena soddisfazione, tra vita privata e vita lavorativa, è possibile solo in un’azienda che valorizzi tutti gli aspetti della persona, dal talento professionale alla salute fisica e mentale, all’organizzazione dei tempi lavoro famiglia.
Una seconda considerazione da fare riguarda, invece, il contesto del mercato del lavoro italiano e la sua particolare rigidità: le aziende fanno fatica nel testare davvero i giovani talenti prima di assumerli in modo stabile e una volta siglato il contratto diventa complicato per entrambe le parti cambiare. Questo si traduce in giovani bloccati in posizioni che non sentono adatte, o aziende che non possono liberarsi di chi non si dimostra all’altezza. È un circolo vizioso che fa male a tutti.
La soluzione? È necessario diventare più flessibili, più “americani” si potrebbe dire, nell’approccio al lavoro. La possibilità di licenziarsi, o di essere licenziati, con più semplicità non deve essere vista come una minaccia, ma come un’opportunità. Opportunità per le aziende di sperimentare, di testare i talenti prima di un’assunzione definitiva. Opportunità per i lavoratori di trovare davvero il loro posto, senza rimanere incastrati in un lavoro che non li soddisfa. Un mercato del lavoro flessibile è un mercato più dinamico, dove è più facile trovare il work-life balance, l’equilibrio tra lavoro e vita privata.