categoria: Vicolo corto
Smart working, cosa abbiamo imparato in questi quattro anni?
Post di Gianluca F. Delfino, Assistant Professor presso la Stockholm School of Economics –
Sono passati ormai quattro anni e mezzo da quando molti di noi hanno sperimentato il telelavoro per la prima volta. Ciò che è emerso nel corso di questi anni va oltre il telelavoro tradizionale. Mi riferisco al fenomeno dello smart working, che offre un approccio più flessibile sia in termini di luogo che di gestione del tempo, consentendo ai lavoratori di organizzare il proprio lavoro in maniera autonoma, ovunque questi si trovino. È da questo nuovo contesto che abbiamo tratto una serie di lezioni importanti. La prima è che non è affatto vero che chi sceglie di lavorare da remoto e in modo flessibile lo faccia per ridurre il proprio impegno o per evitare il controllo. Al contrario, le ricerche dimostrano che spesso accade l’opposto.
Soprattutto in quelle professioni in cui l’output non è un prodotto fisico – dove gli obiettivi di produzione settimanali o mensili possono essere chiaramente definiti – ma un servizio, dove la qualità diventa un elemento centrale e soggettivo, le persone hanno dichiarato di lavorare di più rispetto a quando erano in ufficio. Ma com’è possibile? Chi, avendo l’opportunità di lavorare meno, decide di lavorare comunque di più?
Con lo smart working si lavora di più? Il “paradosso dell’autonomia”
Anche qui, la ricerca ci fornisce una risposta: è il cosiddetto “paradosso dell’autonomia”. Funziona più o meno così: quando ci sentiamo con maggiore autonomia – con meno supervisione diretta da parte dei nostri capi – scatta un meccanismo psicologico che ci porta a voler performare meglio e rispettare ancora di più le aspettative. In altre parole, proprio perché stiamo “godendo dei benefici” dello smart working, lavorando nella comodità di casa nostra, sentiamo di non avere scuse per non portare a termine il lavoro.
Quando decidiamo di restare a casa, percepiamo implicitamente, anche solo in parte, di stare sfruttando un sistema molto comodo. La flessibilità che ci concediamo – andare a fare la spesa alle 11 del mattino, magari perché i supermercati sono meno affollati – la “ripaghiamo” lavorando più ore, cercando di compensare verso noi stessi, i nostri colleghi e i nostri capi. Il prezzo, tuttavia, spesso si traduce in una giornata lavorativa più lunga.
Esperimento: tre profili differenti, come si comportano?
Ovviamente, non bisogna generalizzare. È vero che una persona, essendo “invisibile” agli occhi del proprio capo, potrebbe sfruttare il sistema. Tuttavia, ed è qui il punto cruciale, succede molto raramente che qualcuno scelga di lavorare di meno quando ha l’opportunità di lavorare in smart-working. Cerchiamo di capire il perché, mettendoci nei panni di tre dipendenti diversi:
- – Marco è un neolaureato, ambizioso e desideroso di crescere e imparare.
- – Laura è una giovane professionista, assunta durante il Covid, che sta attraversando un momento difficile, aspettando una promozione che ancora non arriva.
- – Giuseppe, invece, è poco motivato e lavora solo per lo stipendio.
Immaginiamo che la loro azienda abbia una politica di tre giorni di lavoro da casa e due in ufficio. Come reagiranno Marco, Laura e Giuseppe?
Marco, essendo ambizioso e all’inizio della sua carriera, non avrà alcun incentivo a “non lavorare”. Anzi, lo smart working potrebbe rappresentare per lui un ostacolo: ha meno opportunità di incontro, meno occasioni di apprendere direttamente dai colleghi più esperti, meno momenti di socializzazione informale, tutti elementi che potrebbero aiutare la sua crescita.
Per Laura, la situazione è simile. Anche se potrebbe essere demotivata dalla mancata promozione, la sua scelta si riduce a due opzioni: (1) credere che la promozione arriverà presto e continuare a dimostrarsi all’altezza, o (2) cercare nuove opportunità altrove. In entrambi i casi, non ha alcun incentivo a lavorare meno. Se fosse incline a farlo, lo avrebbe già fatto durante il Covid e non sarebbe arrivata dove è oggi.
E Giuseppe? È possibile che persone come Giuseppe, poco motivate, ci siano sempre e ovunque. Tuttavia, che lui lavori da casa o in ufficio, il suo rapporto con il lavoro non cambia. Non è il luogo di lavoro a determinare il suo atteggiamento, ma piuttosto la sua relazione con il lavoro stesso.
In questo senso, il timore che i lavoratori sfruttino la flessibilità per evitare il lavoro si dimostra logicamente infondato. Le persone come Giuseppe esisteranno in ogni contesto lavorativo, indipendentemente dal luogo in cui operano. L’unica differenza è che in un contesto flessibile, gli altri dipendenti, quelli motivati, avranno la possibilità di costruire un ambiente lavorativo migliore per sé stessi e, indirettamente, anche per l’azienda.
Messaggio per le aziende sullo smart working: consigli pratici
Con il rischio di aver semplificato eccessivamente la realtà attraverso questi tre esempi, voglio rivolgermi direttamente a quelle aziende che ancora esitano a concedere flessibilità ai propri dipendenti, anche quando la natura del lavoro lo consente. Noi ricercatori ci poniamo spesso domande simili a quelle di un imprenditore attento ai costi e alla produttività. Ad esempio: “Come viene organizzato lo smart working dalle aziende, e quali sono i suoi effetti?” Possiamo raccontarvi cosa abbiamo osservato, documentato e discusso in molte conferenze scientifiche, dove i nostri risultati vengono messi alla prova da altri studiosi, spesso scettici, perché lo scetticismo è fondamentale per il progresso.
Ecco perché torno al titolo iniziale di questo articolo: facciamo il punto della situazione. Cari imprenditori, comprendo il vostro scetticismo, ma vi chiedo di mettervi nei panni dei vostri dipendenti, di vedere i vantaggi che questa flessibilità porta nella loro vita – una vita complessa, soprattutto oggi. Se sapeste quanti bambini hanno avuto la possibilità di conoscere meglio i propri genitori, quante persone parlano di una qualità di vita migliorata grazie a una maggiore autonomia, vi chiedereste se questa vicinanza familiare possa avere un impatto positivo sulla produttività e sulla motivazione individuale. Forse il vostro scetticismo vacillerebbe.
Selezione: guardare al candidato, non solo alla modalità
Un aspetto importante da considerare riguarda la selezione delle persone. È nel candidato che l’azienda deve fare le sue considerazioni, non nella modalità di lavoro. Le domande centrali dovrebbero essere: questa persona è motivata? Ha voglia di crescere e di imparare? Siamo relativamente sicuri che rimarrà con noi almeno per i prossimi quattro anni?
Se la risposta a queste domande è “sì”, allora non c’è smart working che si frapporrà tra questa persona e i suoi obiettivi professionali, che saranno naturalmente allineati con gli obiettivi aziendali di produttività e qualità. Un dipendente motivato e orientato alla crescita troverà nei benefici dello smart working un’opportunità per migliorare le proprie performance, non una scusa per diminuire il proprio impegno.
Tra una maggiore felicità dei vostri dipendenti e una motivazione più alta all’interno dell’azienda ci siete voi. Se riuscirete a riconoscere che il mondo del lavoro sta evolvendo verso una direzione in cui il cambiamento è inevitabile, e che un approccio più aperto e flessibile può solo portare benefici, potreste anticipare i tempi e migliorare la vita di chi spende il 33% delle proprie giornate con voi (in alcuni casi anche il 50% o più). Immaginate un giorno in cui non si debba prendere l’autobus all’alba, in cui si possa pranzare con i propri cari e ridere insieme, senza che tutto ciò vada a discapito della produttività.
Una alternativa da considerare: il telelavoro
Con questo post spero di aver piantato almeno un seme del dubbio. La discussione aperta di questi temi è fondamentale, perché, come in tutte le relazioni, se non c’è dialogo, non c’è futuro. Potreste anche scoprire che il telelavoro, diverso dallo smart working in quanto prevede una sede fissa di lavoro remoto e una struttura più rigida degli orari, potrebbe rappresentare un punto medio che tenga in considerazione le esigenze di tutti gli attori coinvolti.
In alternativa, vi invito a considerare l’idea di un progetto pilota: implementate una fase sperimentale di telelavoro e valutate come la flessibilità incide sulla produttività e sul benessere dei dipendenti. Non ve ne pentirete.
(email: gianluca.delfino@hhs.se)