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Insegne storiche, ecco chi vince tra proprietari e imprese. E perché
Post di Elisabetta Berti Arnoaldi, partner di Sena & Partners –
In questo anno 2024 il tema del valore dell’avviamento delle insegne di noti locali nel conflitto tra i titolari del diritto di proprietà immobiliare e quelli del diritto di proprietà intellettuale è stato al centro di due decisioni importanti della Corte di Cassazione.
In entrambi i casi si trattava di insegne storiche nel settore dell’hospitality.
Le questioni che attengono a questo genere di segni sono state più volte esplorate dalla giurisprudenza nel risolvere i conflitti tra il titolare ed i terzi che, a diverso titolo, avanzano pretese su patronimici divenuti famosi nel mondo in rapporto alla tradizione che identificano.
Per tutti, in questo settore sono note ed emblematiche, tra le altre, le vicende giudiziarie del nome “Cipriani” identificativo di celebri locali a Venezia ed oggetto di battaglie legali per più di cinquant’anni, del nome “Alfredo”, insegna di un ristorante di Roma noto nel mondo proprio anche per l’omonima ricetta delle sue fettuccine, nome sul quale si è concentrata anche l’attenzione del Tribunale UE in funzione di Tribunale dei Marchi Comunitari, del nome “Michele” che è l’insegna della più celebre ed antica pizzeria di Napoli e sulla cui meritevole e meritata unicità si sono pronunciati diversi tribunali italiani.
Ma le vicende che sono state oggetto delle ultime decisioni dalla Cassazione possiedono un denominatore comune che in qualche modo le rende peculiari; come sopra accennato, in entrambi i casi, le parti contrapposte erano da un lato, la proprietà dell’immobile sede dell’attività di impresa identificata dal segno, dall’altro, l’impresa esercente tale attività e si controverteva dei diritti eventualmente riconducibili all’una e/o all’altra in ragione dell’apposizione sull’immobile del segno in questione in funzione di insegna.
Con sentenza n. 5866 del 9 marzo 2024 la Suprema Corte ha sancito l’irrilevanza dell’uso dell’insegna “Britannique” dell’omonimo albergo napoletano, noto nel mondo sino dalla fine del 1800, rispetto alla posizione dei titolari della proprietà sull’edificio ospitante l’attività di impresa, escludendo quindi ogni connessione con i relativi diritti riservati all’esercente l’attività di impresa “ospitata” nell’immobile.
In senso analogo, con sentenza n.19350 del 15 luglio 2024 la Suprema Corte, chiamata ad intervenire nell’annoso conflitto tra locatori e conduttori dei locali del “Caffè Greco” di via dei Condotti a Roma, locali che sono di per sè oggetto di vincolo amministrativo in virtù di una risalente classificazione come “bene culturale”, riconoscendo la facoltà dei proprietari dei muri di liberare l’immobile nonostante tale vincolo, ha espressamente ribadito sussistere a loro carico, per il caso di prosecuzione di attività commerciale nel medesimo settore dell’hospitality, l’obbligo “del rispetto delle norme sui segni distintivi (artt. 2563 e ss. cod.civ.) onde evitare il possibile compimento di atti di concorrenza sleale” .
Appare dunque dominante la tendenza, correlata alla natura immateriale del bene oggetto di un diritto di proprietà intellettuale, a ritenere che dell’avviamento del segno distintivo inerente l’immobile (l’insegna, in entrambi i casi da ultimo decisi dalla Corte di Cassazione) non benefici in alcun modo il proprietario dell’immobile la cui detenzione ha costituito uno degli strumenti per il relativo sviluppo, competendo unicamente all’imprenditore che ha compiuto le scelte ed ha sopportato gli investimenti per incrementarlo.
Tendenza condivisibile, oltre che corrispondente all’applicazione giurisprudenziale della disciplina dei segni distintivi, per la quale l’estensione dell’esclusiva riconosciuta ad un segno dipende dall’apprezzamento del grado della sua capacità distintiva conseguita sul mercato per effetto non solo della qualità e prodotti e dei servizi identificati, ma anche degli sforzi imprenditoriali, quali gli investimenti comunicazionali, del titolare.