Etichette troppo green. E le aziende litigano per concorrenza sleale

scritto da il 27 Settembre 2024

Post di Rita Santaniello, avvocato specializzato in diritto del lavoro, contenzioso, concorrenza sleale e sostenibilità dello studio multinazionale Rödl & Partner – 

I dati sembrano proprio parlare chiaro. I prodotti che riportano in etichetta claim che comunicano la loro sostenibilità sono ben l’83,8% di quelli presenti negli scaffali della GDO, secondo i recenti dati rilevati dall’Osservatorio Immagino di Gs1 Italy1, sia che si tratti di riciclabilità del packaging, formulazione sostenibile degli ingredienti o biodegradabilità. Ed è chiaro come questi manifestino un’attenzione sempre maggiore da parte delle aziende alle tematiche green come elemento fondamentale delle loro strategie commerciali e di marketing.

Un ulteriore riscontro arriva anche nel report “The Visionary CEO’s Guide to Sustainability 2024” di Bain & Company condotto su circa 19.000 consumatori a livello globale, tra cui gli italiani, dove emerge come la sostenibilità sia uno dei tre criteri principali che influenzano le decisioni d’acquisto, e che portano il 36% degli acquirenti (lato aziendale) a cambiare fornitore se quest’ultimo non riesce a soddisfare le aspettative in materia di sostenibilità, mentre secondo l’Osservatorio Deloitte il 59% delle persone interromperebbe o limiterebbe gli acquisti dei brand che utilizzano una comunicazione ambientale “di facciata”, ovvero il cosiddetto greenwashing.

Fenomeno che – in crescita in tutti i settori del +26% (dati 2023 EBA) appunto fa apparire un prodotto o un brand più ’verde’ di quanto sia in realtà e che vede il 60% delle imprese cadere almeno una volta in comunicazioni a impronta green non valide o ingannevoli (dati Nielsen).

green

Le comunicazioni ingannevoli sono il 42% 

Ma non solo, perché un’indagine condotta dalla Commissione europea sotto il coordinamento della Ipcen (Consumer Protection and Enforcement Network) ha evidenziato come nel 42% dei casi le autorità abbiano ritenuto ingannevoli e non veritiere le comunicazioni green, e quindi abbiano accertato il compimento di pratiche commerciali sleali.

In particolare, in oltre il 50% dei casi, le aziende non hanno dato ai consumatori informazioni sufficienti per valutare quanto comunicato in materia di ecosostenibilità; nel 37% dei casi il claim conteneva formulazioni generiche, come ‘rispettoso dell’ambiente’, o ‘eco’ e nel 59% gli elementi a supporto di quanto dichiarato non erano espliciti.

Tutte queste casistiche qui sopra riportate possono portare a un aumento di azioni legali tra aziende concorrenti e a una crescita di quello che viene definito Greenbickering, ovvero le dispute tra aziende competitor sulle irregolarità delle informazioni presenti su packaging ed etichette.

Tutele sul green? Si può agire anche per concorrenza sleale

A livello legislativo qualcosa si sta muovendo con la direttiva che ha ottenuto il via libera definitivo del Parlamento europeo e che mira a proteggere i consumatori da pratiche di comunicazione ingannevoli e a supportare scelte di acquisto più consapevoli grazie a etichettature più chiare e affidabili.

Ma i tribunali dovranno prendere sempre più confidenza con tutta una serie di azioni (o cause) con le quali un’azienda può agire contro un competitor per concorrenza sleale laddove ritenga utilizzi impropriamente la leva della sostenibilità aziendale per migliorare il suo percepito verso il mercato e i consumatori. Ovviamente per vendere di più.

Come? Per esempio utilizzando marchi, slogan o diciture green non comprovate, sottraendo mercato agli altri o per ‘inverdire’ la propria immagine, ottenendo così ingiustamente un vantaggio competitivo.