categoria: Vicolo corto
Il lavoro non soddisfa. Ma il futuro si fa, non si può aspettare
Post di Mario Alessandra, Fondatore e Amministratore Delegato di Mindwork, società che si occupa di benessere psicologico per le aziende –
Soltanto il 23% dei lavoratori e delle lavoratrici a livello globale è coinvolto nel proprio lavoro. Un dato già di per sé molto basso, che in Italia scende addirittura all’8%. È quanto emerge dall’ultimo report Gallup State of the Global Workplace. A far ulteriormente riflettere è un’altra evidenza relativa al nostro Paese: il 25% delle persone riferisce di essere addirittura “attivamente disimpegnato” nella propria attività professionale. Ovvero 1 persona su 4 non solo è infelice a lavoro, ma potenzialmente mina attivamente ciò che di buono producono i colleghi e le colleghe più ingaggiati.
Numeri, questi, che devono far riflettere sulle possibili ragioni sottese. Le organizzazioni hanno oggi estrema difficoltà a mantenere coinvolte le proprie persone – specialmente perché sono cambiate le priorità di queste ultime, nonché il contesto, che attualmente di certo non aiuta.
Prima ancora di mettere piede – fisico o figurato che sia – in azienda, abbiamo un carico di emozioni derivanti da uno scenario geopolitico, sociale, climatico e tecnologico che ci affatica. Ecco che l’importanza che si dà al lavoro passa potenzialmente in secondo piano: tante persone (troppe?) non lo vedono più come un mezzo di realizzazione personale, attraverso il quale poter migliorare la propria condizione. In alcuni casi, in effetti, il lavoro non assolve più a questa funzione. Negli USA, ad esempio, la percentuale di figli che guadagnano più dei propri genitori è passata dal 90% per i nati nel 1940 al 50% per i nati nel 1980. E ancora, secondo uno studio a livello globale (19 Stati) del Pew Research Center, il 70% delle persone ritiene che le condizioni economiche dei propri figli saranno peggiori delle proprie.
In altri casi, tuttavia, la questione è più sottile. Le possibilità di realizzazione ci sono, ma si fatica a vederle. E, ancora prima, a immaginarle. Eppure, in un periodo di grandi incertezze una cosa è certa: nessuno può costruire il futuro al nostro posto.
Ecco allora che può tornare utile una celebre frase della tennista Billie Jean King: “Pressure is a privilege”. Una frase di cui si fatica a cogliere senso e portata, se discontinuità e sfide vengono vissute come un peso, anziché come un’opportunità.
Le situazioni complesse mettono alla prova i limiti umani, ma è proprio per questo che spingono oltre, che danno la possibilità di scoprire di più, di costruire, di sperare.
Non a caso, in un recente intervento a Stanford, Jansen Huang, ceo di Nvidia, ha usato delle parole molto forti e apparentemente controintuitive: “I hope suffering happens to you” (spero che possiate soffrire) è l’augurio che ha fatto agli studenti. Parole che suonano forti, appunto, ma che racchiudono la necessità di soffrire per poter diventare grandi, partendo dall’assunto che la grandezza derivi dal carattere e che il carattere si plasmi solo sperimentando dolore e sofferenza. L’unica via percorribile, sembra dirci Huang, per costruire e tentare di riuscire. Perché il futuro si fa, non si aspetta. E farlo, significa agire e, dunque, navigare attivamente l’incertezza. Dal momento che al posto di subirla, la si abita. E se ne comprende la potenzialità.
Serve dunque la capacità di andare oltre il contesto e allenare la capacità di sperare. Di immaginare un domani, in primis, e, successivamente, di comprendere come renderlo reale. Giorno dopo giorno.
“La speranza è un modo di pensare”, afferma Chan Hellman, psicologo e fondatore dell’Hope Research Center presso l’Università dell’Oklahoma. A tal proposito, Hellman spiega che la speranza è la convinzione o l’aspettativa che il futuro sia migliore e, dunque, la capacità di lavorare per raggiungerlo. Alla luce di queste considerazioni, l’opposto della speranza non è il pessimismo, ma l’apatia, che si caratterizza, non a caso, per mancata motivazione.
Come possono dunque le aziende contribuire a generare questa speranza?
Una domanda cruciale, dal momento che la sua risposta può contribuire a risanare quel coinvolgimento che, come osservato in apertura, risulta estremamente basso. Specialmente in Italia.
Le organizzazioni possono formare le persone a comprendere meglio il contesto, fornendo strumenti per “decifrare” la realtà, in maniera consapevole e apolitica. Nell’idea che conoscere sia il primo passo per gestire preoccupazioni e ansia e non lasciare che il pessimismo e l’apatia si affermino. Molto spesso infatti, non è l’idea del futuro a mancare, ma una sua immagine positiva.
Le aziende hanno bisogno di persone curiose intellettualmente, capaci di volere un futuro e di immaginarlo migliore dell’oggi. Se l’organizzazione è in grado di supportare l’immaginazione di questo domani – attraverso una cultura interna sana, opportunità di crescita, servizi rivolti alla persona e al suo benessere – è possibile che lavoratori e lavoratrici scelgano di costruire questo futuro all’interno dell’azienda stessa, mettendo a fattor comune non solo coinvolgimento e impegno, ma anche progettualità e visione, generando prosperità economica e sociale.