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Cina shock e transizione verde: a quale costo sociale e politico?
Post di Livia Di Raimondo Metallo –
Ha fatto discutere nelle scorse settimane, la decisione della Commissione Europea di imporre sanzioni provvisorie ai veicoli elettrici importati dalla Cina: in molti parlano di un ‘China shock 2.0’. Parallelamente, il ruolo delle importazioni cinesi potrebbe essere cruciale per la transizione verde. In questo contesto, i rischi per consumatori e lavoratori potrebbero essere dietro l’angolo: con un occhio all’equità, proviamo a stabilire cosa potrebbe accadere.
Il primo “China Shock”
Il termine ‘China shock’ viene coniato per la prima volta dagli economisti Autor, Dorn e Hanson, in un articolo del 2016, che segue la scia del loro già famoso ‘The China Syndrome’ (2013). Con queste espressioni gli autori si riferiscono al progressivo incremento delle esportazioni cinesi negli Stati Uniti e delle conseguenze per l’occupazione statunitense. Di fatti, se da un lato i consumatori beneficiano di una concorrenza dall’estero che offre loro beni a costi più vantaggiosi, dall’altro i lavoratori del settore manifatturiero sono stati svantaggiati.
Ed è così che questa che leggete, come ormai gran parte delle discussioni sulla globalizzazione, si focalizza su quelli che vengono spesso chiamati ‘i perdenti’: capire come compensarli in maniera giusta è un tema che necessariamente gli analisti devono porsi per garantire la sostenibilità della globalizzazione, soprattutto in ambito politico.
In particolare, gli autori stimano che tra il 1970 e il 2007 le importazioni cinesi hanno lasciato senza lavoro 1,5 milioni di americani precedentemente impiegati nel settore manifatturiero. In più, molti dei posti di lavoro distrutti erano particolarmente concentrati a livello geografico, portando a conseguenze disastrose per singole comunità che basavano la loro sussistenza su un settore ormai ferito.
Il secondo round interessa l’Europa
Uno scenario molto simile a quello appena descritto potrebbe arrivare anche in Europa. Difatti, già a novembre dello scorso anno il report Citi Global Insight parlava di come le esportazioni cinesi fossero cambiate, passando dagli ‘Old Three’ (elettrodomestici, mobili e abbigliamento) ai ‘New Three’ (veicoli elettrici, batterie al litio e pannelli solari). Gli autori del report identificano l’Unione Europea come il principale mercato per questi prodotti: le esportazioni di veicoli elettrici sono cresciute del 122,2% anno su anno nel 2022 e hanno mantenuto una forte crescita nel 2023, pari al 92% nei primi 10 mesi, che equivale a una quota vicina al 5%, di cui circa la metà attribuibile però a brand occidentali prodotti in Cina.
E già nel 2020 Scott Kennedy del Center for Strategic & International Studies dava una chiave di lettura di questo fenomeno. Prevedeva che le esportazioni cinesi di veicoli elettrici avrebbero beneficiato di un ampio sostegno governativo, ma che, qualora tale sostegno si fosse tradotto in prodotti venduti a prezzi relativamente bassi, inevitabilmente ci sarebbero stati dei reclami.
L’Europa e i dazi contro le auto cinesi
Infatti, lo scorso ottobre la Commissione Europea ha annunciato l’inizio di un’inchiesta anti sovvenzioni sulle importazioni dalla Cina di veicoli elettrici a batteria. L’obiettivo, si legge nel comunicato stampa, è quello di determinare se l’industria cinese abbia ottenuto sussidi illegittimi e se questo rappresenti effettivamente una minaccia per il mercato europeo.
L’inchiesta ha portato la Commissione ad annunciare sanzioni provvisorie che vanno dal 17,4% al 37,6% contro i veicoli elettrici importati dalla Cina. Si tratta di una mossa comunque rischiosa: le sanzioni sono potenzialmente dannose per le case automobilistiche europee impegnate in operazioni globali. Ed è proprio per questo che alcuni stati europei non hanno risposto positivamente alla recente consultazione. Secondo il Global Times, media controllato dal governo di Pechino, il ministro tedesco per i trasporti e le infrastrutture digitali Wissing ha definito l’aumento tariffario una mossa “distruttiva”. Conseguenze indesiderate potrebbero colpire così soprattutto i consumatori, portandoli a sostenere prezzi più elevati.
Una giusta transizione verde
Il tema della transizione verde è cruciale in questa discussione per due motivi. Da un lato, i veicoli elettrici prodotti dalla Cina e venduti a un prezzo competitivo potrebbero essere decisivi per l’Europa ai fini del processo di decarbonizzazione del settore dei trasporti. Dall’altro, la stessa transizione verde è un fenomeno che di per sé, come il ‘China shock’, potrebbe influenzare fortemente molti lavoratori di diversi settori: per rispettare gli obiettivi del Green Deal molti lavoratori del settore automobilistico, per esempio, potrebbero perdere il lavoro se non opportunamente reindirizzati.
È in questo contesto che è necessario assicurare che anche questi possibili ‘perdenti’ siano adeguatamente compensati. La stessa Commissione parla di Just Transition Mechanism già da un po’, prevedendo di mobilitare circa 55 miliardi di euro nel periodo 2021-2027 per sostenere le regioni, i settori e i lavoratori più colpiti dalla transizione. L’obiettivo dovrebbe essere quello di fornire nuovi posti di lavoro sostenibili per sostituire ruoli obsoleti e fornire opportunità di riqualificazione.
Più in generale però si tratta di lavorare anche a livello delle singole aziende. Secondo Nick Robins, professore presso il Grantham Research Instititute on Climate Change and the Environment della LSE, l’idea non è che le aziende debbano farsi carico della giusta transizione da sole, ma che abbiano un ruolo chiave nell’assicurare che nei loro piani aziendali vengano incorporati impegni per l’inclusione e i diritti umani.
Anche in questo caso, in ultima istanza, il tema è soprattutto politico: non riuscire a garantire una transizione giusta, aumenterebbe le disuguaglianze e porterebbe malcontento. L’equità percepita è quello che conta: non essere in grado di placare le preoccupazioni dei lavoratori potrebbe bloccare la transizione verde.
Le conseguenze politiche della transizione
Difatti, quasi più famoso del lavoro di Autor, Dorn e Hanson, sono gli articoli che ne analizzano le conseguenze politiche. La tendenza che la letteratura più recente sembra individuare è la seguente: malcontenti legati alla globalizzazione e a una transizione verde non giusta vengono tradotti nel successo dei partiti nazionalisti e di estrema destra. Per esempio, Colantone e Stanig dell’Università Bocconi hanno spiegato in un articolo del 2018 come la globalizzazione ha avuto un effetto sul voto per la Brexit, aumentando i voti per il Leave.
Così, come Clara Mattei, economista della New School for Social Research, evidenzia nel suo saggio L’economia è politica (2023): “Non esistono problemi economici che non siano inevitabilmente problemi politici”. Ed è per questo che lo sguardo che domina questa discussione non è moralista, quanto semplicemente politico: le conseguenze politiche di decisioni economiche che non tengono conto di diverse classi di interesse possono stravolgere gli equilibri attuali. Occuparsi di disuguaglianze nelle scelte economiche sembra essere un elemento essenziale per affrontare le sfide dell’economia globale.