Fare impresa oggi: impatto sociale e profitto possono coesistere?

scritto da il 18 Luglio 2024

Post di Luigi Corvo, Associate Professor alla Università di Milano-Bicocca e Founder di Open Impact – 

Va sfatato un mito: quello che non possano coesistere impatto e profitto contemporaneamente. In altri termini, sarebbe come dire che non possiamo ambire a vivere in contesti caratterizzati da un equilibrio fra livelli di prosperità economica e di coesione sociale. Spesso si tende a voler mettere su due piani diversi e anche su scale diverse, fra Serie A Serie B, chi genera valore finanziario e chi genera valore sociale, affermando che il valore sociale è qualcosa che appartiene a un campo ristretto e distaccato, ad un settore residuale dell’economia, quando invece l’impatto sociale riguarda tutti noi.

Il problema nasce perché durante il secolo scorso tutti noi abbiamo costruito un’economia in cui facevamo costantemente coesistere profitto e quelle che abbiamo chiamato “esternalità”. Se possono vivere assieme questi due elementi, possono assolutamente coesistere anche profitto e impatto. L’impatto, infatti, va inteso come la reinternalizzazione di quelle esternalità, allargano i confini della catena del valore delle organizzazioni e sancendo che l’istituto aziendale opera come un organismo sociale in un rapporto di continuo scambio e co-evoluzione con il contesto di cui è parte. L’impatto estende i confini dell’azienda e diffonde interessi al di là della catena del valore finanziario, e questo rappresenta il cuore del legame fra profitto e impatto.

Lo scopo dell’impresa al di là del profitto

Chiaramente, come in ogni rapporto a due, ci sono anche delle criticità: per esempio, nel momento in cui l’impatto viene visto soltanto da un punto di vista reputazionale, di marketing e di comunicazione, piuttosto che in relazione alla mission, alle attività core dell’azienda, e all’importanza effettiva che ha per tutto ciò che le ruota attorno. Nel momento in cui un’azienda capisce qual è il proprio purpose, ossia il proprio scopo, al di là del profitto che è una conseguenza del proprio fine aziendale, l’impatto diventa un modo per raggiungere tale scopo riducendo le disuguaglianze e incrementando l’inclusione.  

Impresa, impatto sociale e giovani 

Dividere chi genera valore finanziario e chi genera valore sociale sarebbe come creare una scissione della nostra vita, cosa che non è chiaramente possibile perché noi tutti abbiamo una vita integrata, complessa, e non divisa tra tutti i suoi diversi aspetti. Ho la fortuna di lavorare con molti giovani studenti e posso con certezza affermare che tutte le dicotomie del passato non esistono più per le nuove generazioni: possiamo definire i giovani di oggi come nativi sostenibili, che vedono il valore nella triplice accezione di sostenibilità ambientale, sociale ed economica, e lo fanno in modo del tutto autentico e spontaneo.

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Il fenomeno delle grandi dimissioni, di cui si sta tanto dibattendo in questi anni, è fortemente spiegato dalla carenza di vocazione d’impatto delle organizzazioni per cui lavorano: i giovani cercano stimoli, missioni e obiettivi concreti e l’idea che si metta in competizione il voler lavorare nel volontariato, nel non profit e nel sociale con il voler lavorare nelle aziende produttive è un concetto ormai superato.

La sostenibilità è un vezzo per ricchi?

Il pericolo che si va diffondendo oggi è invece l’idea di rimettere di nuovo in discussione la dimensione sociale e la dimensione ambientale come escludenti, ossia la sostenibilità come un vezzo solo per ricchi. È una posizione pericolosa, perché implica mettere la dimensione sociale contro la dimensione ambientale e creare una divaricazione pericolosa, per cui se vuoi del lavoro devi accettare un po’ di malessere sanitario, se vuoi del lavoro devi accettare un ambiente più sporco e più inquinato, e così via. Il nostro compito è proprio quello di superare questo tipo di riduzionismo, questa idea che non abbiamo la dotazione di intelligenza di capitale umano, di tecnologie e di innovazione sociale e quindi di creatività tale per poter proporre qualcosa che sia positivo da tre punti di vista: ambientale, sociale ed economico.

Questa è la grande sfida del nostro secolo e in parte anche la sua utopia, in un momento storico in cui molto spesso soffriamo per la mancanza di forte ideologie e di forti ispirazioni: l’idea di avere la possibilità di riscrivere, di rendere di nuovo contendibile il modo in cui si fa impresa è la più bella sfida che possiamo aprire alle nuove generazioni. Evitando così quel senso di disaffezione dal lavoro che caratterizza il nostro secolo e le nuove generazioni, che molto spesso chiedono un livello di ingaggio più profondo delle mansioni e più avvincente delle performance: chiedono di poter giocare la partita della trasformazione del mondo che hanno ereditato.

Numeri, dati, informazioni per orientare i processi decisionali

Ogni azienda può misurare il proprio impatto sociale e può farlo attraverso tantissimi metodi diversi. L’esperienza di Open Impact, la digital company e spin-off dell’Università di Milano-Bicocca che ho fondato con alcuni soci 5 anni fa, racconta che non è strettamente necessario creare il proprio modello, perché un punto chiave per misurare l’impatto sociale è proprio partire dall’intelligenza collettiva, riconoscendo che intorno a noi ci sono tanti altri soggetti che hanno già creato un pezzo di conoscenza utile.

In questo modo non siamo solo in grado di costruire un database degli impatti, ma anche di sviluppare tool digitali, piattaforme in grado di “democratizzare l’impatto”, ovvero di far accedere alla misurazione di impatto quei soggetti che non hanno le possibilità finanziarie e di risorse umane per poter costruire modelli fatti in casa. La traiettoria che guida Open Impact è quella di andare dal dato all’informazione e alla conoscenza: non solo dati, ma numeri in grado di trasformarsi in informazioni che diventano conoscenze e che possano orientare i processi decisionali verso l’impatto sociale.

Quali sono le criticità da superare

Ci sono ovviamente criticità da superare in modo creativo: nell’impatto sociale non esiste quell’indicatore unico che è misurabile con un sensore e che produce dati incontrovertibili, ma si parla di una conoscenza che viene definita “costrutto”. È un costrutto contendibile e quindi richiede elementi di maggiore complessità nella sua analisi, una complessità che però non deve diventare un vincolo e un freno alla sua scalabilità. Noi lavoriamo ogni giorno affinché l’impatto abbia sempre di più un valore segnaletico, capace di orientare le decisioni e indirizzare le risorse.

La relazione di impatto di Up Day (NDA. azienda che opera nel mercato dei servizi alle imprese e alla persona quali buoni pasto, buoni acquisto e piani di welfare aziendale, presentata in occasione dell’evento “Sessant’anni tra partecipazione, innovazione e sviluppo. Up, la cooperazione nel futuro”) opera un passaggio che, forse inconsciamente, risolve uno dei problemi tipici del mondo della sostenibilità e del fenomeno ESG.

La componente “S” viene infatti ormai riconosciuta come la più complessa, la più articolata e la più carente dentro il mondo ESG perché molto spesso le aziende che misurano la componente S tendono a racchiudere la misurazione in ciò che avviene all’interno dell’azienda, ma se parliamo di un’azienda che produce prodotti ed eroga servizi all’esterno in questo modo non è possibile catturare l’impatto sociale che provoca fuori dalle proprie mura, ossia da parte di chi usufruisce dei suoi prodotti e servizi.

Impresa e dimensioni sociali, come tenerle insieme?

Come possiamo quindi tenere insieme la dimensione sociale che sta all’interno del perimetro aziendale e la dimensione sociale provocata da ciò che esce dal perimetro in quanto prodotto o servizio e che provoca degli effetti a catena nei confronti dei consumatori, dei clienti, della comunità e di altri stakeholder? Nella sua relazione di impatto, Up Day non tiene conto solo della dimensione del Social Impact, ma si occupa anche del Societal Impact, ossia dell’impatto sociale allargato, dell’impatto sociale esteso che riesce a contagiare ciò che lo circonda, a creare quello che viene definito ecosistema in grado di contaminare comunità e territorio. È questa la prospettiva integrata che dobbiamo continuare a seguire, per il futuro dell’impresa, della società e del pianeta che abitiamo.