Sul MES, di nuovo: stessi slogan, stessi errori

scritto da il 24 Giugno 2024

Post di Francesco M. Renne, commercialista e revisore, faculty member CUOA Business School, formatore in materie finanziarie e fiscali –

È mutato il contesto e sembra proprio che pochi se ne siano accorti. Ed è mutato (molto) più “tecnicamente”, che sotto il profilo (tanto enfatizzato, da alcuni) “politico”. Talché appare fuori tempo chi oggi ripropone i medesimi slogan “no MES” di qualche anno fa (e, invero, anche solo di un anno fa). Ma andiamo con ordine e proviamo a fare qualche ragionamento concreto.

Per alcuni era una questione di logica (“a pacchetto”).

In un primo tempo, l’attuale maggioranza aveva espresso l’intenzione di trovare un accordo in sede europea secondo una logica “a pacchetto”, cioè un accordo unico su (i) unione bancaria, (ii) nuovo patto di stabilità e (iii) ratifica del MES.

Sul primo punto, si ragiona ancora, ma chiunque conosca qualcosa di finanza sa che di maggiore convergenza (“unione”) bancaria europea ce ne sarebbe bisogno come il pane. Sul secondo si è arrivati, faticosamente, ad un compromesso (in parte) migliorativo, che però “pesa” ancora sul nostro bilancio pubblico (rectius, sulle decisioni di spesa del Governo di turno). Sul terzo, teniamo in stallo l’intera Europa per una rivalsa politica (non smentire la posizione politica di alcuni esponenti di Governo e maggioranza attuali), ricevendone in cambio ostracismo e diffidenza.

La mancata ratifica di un anno fa, che di fatto ha preso in ostaggio il ministro Giorgetti (che invero lo avrebbe preferito ratificare), gioca ora infatti “contro” la credibilità italiana nella trattativa sul “percorso di rientro” per il deficit eccessivo, che dovremo concordare con la Commissione UE. E ciò con buona pace dei “risultati” che si sarebbero voluti ottenere e con poca “giustificazione tecnica” nelle motivazioni di diniego alla ratifica, reiterate anche in questi giorni.

Cattivissimo MES, stereotipo ormai depotenziato

Lo stereotipo (inveritiero) del “cattivissimo MES” si è ormai sgonfiato, agli occhi di chi volesse andare oltre gli stantii slogan sovranisti, scontratisi già con la realtà del “nuovo” patto di stabilità. Né i (presunti) “nuovi equilibri” europei che avrebbero dovuto verificarsi con lo “spostamento a destra” della maggioranza nel Parlamento europeo (invero non avveratisi, ad oggi, salvo ripensamenti dell’ultimo minuto del PPE), prodromi di un mutamento sulle “rigidità” di bilancio richieste in sede europea, hanno avuto gli effetti sperati da chi ne ostacola la ratifica.

MES

Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni e il vicepresidente Matteo Salvini

Per comprendere meglio, alcune risposte “tecniche” sono necessarie.

Cos’è (davvero) il MES?

Nell’accordo sottoposto a ratifica, il MES si estende da mero “salva-stati” a (anche) “salva-banche”, mantenendo i due “bracci” di intervento (uno “preventivo” ed uno “correttivo”, a crisi già emersa) e gli obblighi di “piani di correzione” (alle finanze pubbliche) concordati con il Paese che ne richiede l’attivazione. Ora, va precisato che ratificarlo non corrisponde a richiederne l’attivazione e che l’estensione alle crisi bancarie, oltre a una maggiore flessibilità di intervento, sono da considerarsi positivamente; semmai, i punti critici sono la sua dotazione complessiva, il cui tetto è “asticella” per eventuali attacchi speculativi, e i tempi di negoziazione dei percorsi correttivi, in caso di interventi a crisi conclamata. Precisamente i due punti che, all’opposto, i sovranisti contestano (troppi i fondi già ora richiesti; contestazione degli automatismi di intervento).

Gli altri slogan con cui ci si oppone alla ratifica sono il “non essere democratico perché ente privato”, il cd. “effetto stigma” e, appunto, l’ingerenza nelle politiche domestiche. Orbene, va da sé che gli ultimi due sono (sotto il profilo tecnico) illogici, intanto poiché gli interventi preventivi dipendono da richieste specifiche dei Governi dei singoli Paesi e gli interventi correttivi avverrebbero a crisi già conclamate, in cui il singolo Paese non avrebbe la forza di intervenire da solo e dove il suo Governo dovrebbe comunque attivarsi per manovre correttive sui conti pubblici.

Lo scudo del MES

Mentre, sotto il profilo dello “stigma” (i.e. il timore che, richiedendo un intervento del MES, la restante parte del debito pubblico in circolazione subisca un “downgrade” sui mercati, poiché verrebbe percepito più rischioso), non v’è chi (in buona fede) non veda come in caso di avvicinamento al default di un Paese, l’intero suo debito sarebbe già percepito come più rischioso (i.e. incorporando la stima del rischio nei prezzi dei titoli); al contrario – potendo attivare lo “scudo” del MES – fruirebbe invece di una ciambella di salvataggio aggiuntiva e, quindi, verrebbe visto con minor rischio che non dovendo affrontare la tempesta da solo. Il primo degli slogan, invece, sotto il profilo tecnico è fuorviante, poiché nell’organo decisorio (e nei suoi rappresentanti esecutivi, da questo nominati) sono rappresentati i Governi in carica (ministri dell’economia) dei Paesi membri (l’Italia è il terzo sottoscrittore, in termini dimensionali) che votano per quota di capitale apportato.

Cos’è il “nuovo” patto di stabilità?

Il nuovo Patto di stabilità europeo contiene maggiore flessibilità negli interventi correttivi – pur all’interno di corridoi numerici prefissati di risanamento – e un maggior ruolo europeo nella condivisione delle scelte di risanamento interne al Paese in difficoltà. Restano i parametri di incidenza sul Pil al 60% di debito pubblico e al 3% di deficit annuo (da cui derivano le annunciate procedure per infrazione a diversi Paesi europei, tra cui l’Italia). La fase di “aggiustamento dei conti” sarà di quattro anni, estendibile a sette, con traiettorie di rientro variabili soggettivamente da Paese a Paese, tenendo conto delle differenze economiche esistenti.

Con deficit annuo inferiore al 3%, vi saranno correzioni pari allo 0,25% per anno (salvo eccezioni mirate), in aggiunta a un obiettivo di riduzione del debito pari allo 0,5% o all’1% annuo, a seconda che il debito sia, rispettivamente, inferiore o superiore al 90% del Pil. Con deficit superiore al 3%, scatterebbe una correzione fissa dello 0,5% annuale. Nel periodo transitorio, talune voci di spesa (tra cui il peso dell’incremento degli interessi sul debito) non verrebbero conteggiate nei calcoli di sforamento dei parametri.

In soldoni, all’Italia, a PIL e spesa invariati, il rispetto del “nuovo” patto “costerebbe” (e in maniera vincolante, non facoltativa come il MES) una correzione tra dodici e quindici miliardi all’anno (oltre ai 18 circa necessari per rinnovare il cuneo fiscale ed altre misure sociali attuate nel 2024), visto il deficit 2023 ad oltre il 7% e il debito pubblico che veleggia verso i 3mila miliardi (grazie anche al “buco” derivante dai bonus e superbonus vari).

Come la pensano mercati (agenzie di rating & dintorni comprese)?

Sia il “nuovo” patto di stabilità che il MES sono visti positivamente dai mercati, poiché fissano regole di bilancio e di intervento in caso di situazioni di crisi che permettono – in funzione della credibilità dei singoli Paesi emittenti – di prezzare trasparentemente il rischio per chi investe. In sintesi e per cercare di far comprendere meglio, in ordine di rischio crescente: “dentro i paletti”, “dentro i paletti con trend di sfondamento”, “fuori dai paletti con trend di rientro”, “fuori dai paletti con trend costante”, “fuori dai paletti con trend di ulteriore peggioramento”. Le analisi delle Agenzie di Rating, peraltro, nulla attestano se non meri giudizi esterni di tali concetti (seppur attraverso metodologie ben più complesse della succinta sintesi prima esposta) e, semestralmente, valutano la “credibilità” sui mercati delle politiche nazionali. Quindi, sintesi della sintesi, è problema di “credibilità” (tecnica, dei “numeri”, non politica).

Peraltro, anche lo stereotipo (asseritamente) positivo del debito “in mano agli italiani”, andrebbe ridimensionato, poiché il risparmiatore (più o meno inconsapevolmente), oltre al rischio di (eccesso di) “concentrazione” dei suoi investimenti (un principio cardine della – tanto decantata quanto poco diffusa in Italia – educazione finanziaria è, appunto, la “diversificazione”), si assume, alternativamente, il “rischio prezzo” (se decidesse di venderlo prima della scadenza) o il “rischio illiquidità” (non poterne disporre per il tempo che intercorre tra sottoscrizione e rimborso), data la circostanza che non è che se le sottoscrizioni siano domestiche allora il “rischio” (i.e. volatilità nel durante e/o default al rimborso) sparisca. Ma, invero, ciò evidentemente poco importa agli “sloganisti” di professione, evidentemente più attenti a ridurre il rischio per l’emittente Stato (ad alta concentrazione di debito domestico e frazionato corrisponde minore rischio di pressioni speculative e/o di default) che attenti all’educazione finanziaria e alla tutela del risparmiatore retail.

Cosa si sarebbe dovuto fare prima, allora? E cosa si dovrebbe fare adesso?

A sommesso giudizio di chi scrive, stante le condizioni macroeconomiche di debito pubblico, di produttività e di curva demografica prospettica (che causerà un rallentamento delle aspettative economiche di crescita e un aggravio della spesa sanitaria e pensionistica, soprattutto se non supportato da maggiore “immigrazione economica”), oltre che di esposizione al rischio speculativo (anche in dipendenza dei giudizi oggettivi delle agenzie di rating che, in caso di downgrading, innescherebbero ondate di vendite e riduzione di domanda sui nostri titoli di Stato, per effetto delle policy delle istituzioni finanziarie estere e dei fondi di investimento che non permettono investimenti oltre un dato grado di rischio), si sarebbe dovuto ratificare il MES sin dall’inizio.

In tal modo non ci si sarebbe trovati isolati nelle discussioni economico-finanziarie europee, così da poter sfruttare tale condivisione per ottenere (tecnicamente) migliori condizioni sul “nuovo” patto di stabilità. Magari spingendo sulla proposta Draghi (e Macron) sul MES come Agenzia del debito comune (e sul debito unico europeo con i cd. eurobond), che avrebbe implicitamente migliorato il MES stesso. Sul punto, va tenuto presente che l’attuale debito europeo (i.e. quello nato dal programma “next generation EU”) non è inserito nei principali indici dei mercati finanziari (es. MSCI et al.) proprio perché estemporaneo, non continuativo e non figlio di un’unione bancaria e finanziaria definitivamente regolata, così riducendo la domanda di mercato dei titoli europei.

Cos’è il “bene” per l’Italia, dunque?

Reiterare scelte condite da slogan stereotipati o ragionare tecnicamente su questi temi, ratificandolo, per prevenire situazioni di esposizione a rischi speculativi, che potrebbero far percepire un rischio-default (ad oggi non immediatamente sussistente, ma va ricordato che siamo a uno/due gradini – al variare delle agenzie di rating – dal livello di titoli spazzatura)? Il ministro Giorgetti – che pure ha negoziato il “nuovo” patto e l’accordo del MES e che era (a mezza bocca) favorevole alla sua ratifica – appare oggi “sospeso” nella sua maggioranza, subendo una diminutio di immagine rispetto ai suoi omologhi di ruolo europei; l’attuale maggioranza, che pare occuparsi d’altro, appare così in balìa di una delle sue componenti (invero, di una minoranza di questa) che ne esclude la (tardiva) ratifica. Condizioni non certo ideali per ottenere, diplomaticamente, qualche vantaggio dalla nuova governance europea.

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