categoria: Vicolo corto
Perché il Venture Capital per la ricerca è una priorità assoluta
Post di Alberto Calvo e Massimiliano Granieri, rispettivamente Managing Director e Charmain di Mito Technology –
Qualche giorno fa si è celebrato l’ottantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, un evento storico, politico e militare che pose le basi per la fine della Seconda Guerra mondiale. Come è noto, i successivi anni, caratterizzati da una pace stabile in gran parte del mondo, hanno portato enorme beneficio anche all’Europa e ai suoi stati membri: per i quattro decenni successivi e fino alla caduta del muro di Berlino, la spinta sulla crescita economico-industriale, a partire da un impulso eccezionale dato alla ricerca scientifica, è stata il punto di riferimento costante per assicurare, in un mondo in buona parte da ricostruire, un maggior benessere diffuso.
La fine della Guerra Fredda ha poi stabilito un nuovo paradigma nella storia recente: gli impetuosi anni Ottanta e il decennio successivo hanno visto la graduale ascesa di un’economia prevalentemente a base finanziaria, versione evoluta e progressivamente dematerializzata di quella che si fondava sulle attività industriali post-belliche e del boom degli anni Sessanta. Per sostenere ulteriormente la crescita globale, i primi decenni del 2000 sono stati invece improntati ad un’ampia liberalizzazione degli scambi commerciali, che ha aperto velocemente nuovi mercati e ne ha consentito l’accesso a qualche miliardo di consumatori in più.
Il paradigma di una crescita globale indefinita in un mondo del tutto globalizzato sembra oggi tuttavia segnare il passo. A nostro avviso, tra le tante ragioni a cui far risalire questi effetti, due sono oggi gli elementi da rimettere al centro di una politica economica europea.
Per una nuova politica europea
Il primo: un nuovo rinascimento nella ricerca e sviluppo. La storia economica del mondo moderno registra, grazie all’accumulo nel tempo di competenze e tecnologie, un’espansione del bacino di risorse globali disponibili che va di pari passo a quella dell’economia. Tuttavia, le risorse (materiali e immateriali) non sono uniformemente distribuite sul pianeta, e l’ingegno umano che le rende progressivamente accessibili procede tipicamente per salti non lineari: nel breve periodo, in effetti, le risorse critiche possono quindi risultare limitate.
La presa di consapevolezza di questo aspetto ha negli anni contribuito a riscrivere gli assetti geopolitici globali per quanto concerne l’accesso alla terra, alle risorse naturali, alle materie prime, al capitale umano, al progresso in generale. E in modo ancora più spettacolare, in questi decenni (specie nel sud-est asiatico) si è innescato un processo virtuoso di accumulo di nuova conoscenza e tecnologia – le basi sulle quali la moderna ricchezza viene costruita – che mette molti di quei paesi, in primis la Cina, in posizioni di grande rilievo per l’ambizione ad un’egemonia economico-industriale globale.
Ci sembra urgente dunque riportare con forza al centro delle strategie europee il tema di una rinnovata capacità di innovazione radicale, unica fonte di vantaggio competitivo nel lungo periodo, a partire dall’identificazione degli ambiti e settori dove investire per ricostruire una leadership mondiale, e a seguire da un supporto concreto a tutti gli attori dell’ecosistema che possano tradurre questa innovazione fondamentale in nuovi prodotti, servizi, tecnologie.
È inevitabile tornare a investire massicciamente in innovazione, a partire dalle sue fonti. Non su tutti i fronti un’ambizione di questo tipo sarebbe oggi realisticamente perseguibile, ma certamente in Europa possiamo darci l’obiettivo di diventare protagonisti, ad esempio, di un rinascimento industriale centrato su una delle priorità di sviluppo condivise a livello planetario, e cioè la transizione energetica e la decarbonizzazione dei processi produttivi (il climate-tech), riconnettendoci alle radici della grande stagione del dopoguerra.
Per un mercato comune dell’innovazione
Un secondo aspetto imprescindibile è il ripensamento dei modelli operativi con cui alimentare il motore dell’innovazione stessa. Infatti, se si è convinti che per scongiurare forse non l’irrilevanza, ma certamente una posizione defilata e marginale dell’Europa sullo scacchiere globale, occorra difendere e rinvigorire la capacità creativa dirompente che ha contribuito a consolidare il benessere delle società del nostro continente per 70 anni, allora, alla stessa stregua di quanto avviene (con fatica, certo) all’interno del dibattito in Europa per una difesa comune, un regime fiscale integrato, una legislazione armonizzata, è inevitabile porsi con grande senso di urgenza il tema di come favorire un mercato comune dell’innovazione.
La chiave qui sta negli strumenti operativi a disposizione dei policy-makers: certo, i capitali sono mobili e i confini nazionali non costituiscono barriere significative, ma ci sono una quantità enorme di questioni pratiche su cui lavorare con impegno: dall’armonizzazione degli incentivi per chi investe capitali di rischio a servizio dell’innovazione (decontribuzione, fiscalità particolare) alla burocrazia che insiste sulle nuove imprese nascenti, dalla facilità con cui rendere visibile il patrimonio immagazzinato nella proprietà intellettuale in Paesi diversi al favorire la costituzione di operatori a servizio del Venture Capital che possano liberamente operare cross-border e non solo all’interno dei confini nazionali, dal dare incentivi seri al sistema della ricerca universitaria per alimentare i germi dell’innovazione dirompente al proprio interno all’individuare percorsi creativi per trasferirli velocemente al mercato, etc.
Si tratta di fare un lavoro che è veramente “di squadra”; l’auspicio è quello di ricreare un ecosistema che somigli in qualche modo, fatte le dovute differenze, a quello degli anni ‘50 del secolo scorso, in cui era molto chiara all’operatore pubblico la necessità impellente di costituire vantaggi competitivi sulla base della conoscenza.
Siamo persuasi che nelle istituzioni accademiche e di ricerca in Europa si annidi ancora un’enorme ricchezza sulla quale edificare nuove strategie di crescita, che fanno leva, ad esempio, su tecnologie a servizio della mitigazione degli effetti del cambiamento climatico, dell’intelligenza artificiale, dei nuovi materiali, della sicurezza, dello spazio. In questo senso, l’iniziativa della NATO di costituire un fondo di investimento (il Nato Innovation Fund), focalizzato non a caso su alcuni verticali molto specifici, rappresenta un primo segnale, di una reazione che deve essere vigorosa e priva di compromessi, così come la sfida attuale richiede.
L’integrazione tra capitale di rischio e politiche pubbliche
In un mondo complesso, ognuno è chiamato a fare con responsabilità il proprio dovere. Come è accaduto negli USA e poi, via via, in altre aree del pianeta, dalla combinazione di apporti finanziari, di scienza, tecnologia e capitale umano, può generarsi un benessere duraturo e sostenibile nel tempo. Senza questi ingredienti non esisterebbero oggi internet, i vaccini a mRNA, Google, Apple, SpaceX e molte altre imprese che hanno creato vere e proprie industrie o rivoluzionato quelle esistenti.
L’enzima necessario della nuova impresa a base tecnologica, cioè l’investitore nel capitale di rischio, deve integrarsi con le politiche pubbliche ed essere capace di scovare i migliori risultati della ricerca fondamentale, cogliere il loro potenziale trasformativo, e alimentare finalmente le ambizioni di una nuova leadership imprenditoriale Europea.