Le dimissioni di un economista e la finanza nei servizi pubblici

scritto da il 12 Giugno 2024

Il professor George Luffenbach, ex docente di economia industriale alla Liberty University, scrive delle sue dimissioni al suo ex studente modello Jean Luc, ripercorrendo 30 anni di carriera accademica nel settore delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni dei servizi pubblici. La prossima settimana la risposta di Jean Luc, disilluso dal suo lavoro nella finanza. Al seguente link un’ottima fonte accademica a supporto delle argomentazioni del professor Luffenbach.

Caro Jean Luc,
da anni sento dire che i pub sono in declino ma qui a Londra ad ogni angolo ce n’è uno aperto e pieno di gente. È in uno di questi pub che mi sono rifugiato questa sera , ed è qui, seduto davanti a una pinta, che non ho saputo resistere al desiderio di scriverti, scrivere a te che sei stato il mio miglior studente molti anni fa. Anche se le cose che intendo dirti mi costano fatica, forse la birra mi aiuterà in questo, spero che tu possa comprenderne lo spirito, e se non sarà così… pazienza.
Intendo  dimettermi da economista. Certo, sono dimissioni metaforiche, simboliche, di nessun valore pratico, e tuttavia intendo farlo e dirlo prima di tutto a te.
Per spiegarti le ragioni di queste dimissioni semiserie devo un po’ ripercorrere quello che è stato il mio percorso, che tu hai incrociato molti anni fa , e in questo ripercorrere troverai tutti i motivi della mia disillusione.
Ho insegnato per più di 30 anni alla Liberty University, convinto che le liberalizzazioni e le privatizzazioni fossero la strada giusta per migliorare i servizi pubblici e offrire un miglior servizio ai cittadini a un costo ragionevole.
Ricordo la tua bravura durante i seminari nell’esporre il Capitale Asset Pricing Model (CAPM) e il Weighted Average Cost of Capital (WACC). Ti muovevi tra quelle espressioni arricchendole di spiegazioni orali e casi pratici, il tuo entusiasmo era ammirevole, ma è anche la fonte, oggi, del mio rimorso.
Vedi, se dovessi riassumere il nostro più grande errore, per nostro intendo quello della comunità accademica di quegli anni, è stato illudersi che l’ingresso del capitale privato, della finanza sofisticata, nei servizi pubblici locali e in particolare nell’acqua potesse alimentare gli investimenti e migliorare le infrastrutture, l’efficienza, e l’equità nelle tariffe.

Come abbiamo potuto pensare che la finanza non avrebbe distorto a proprio favore quella grande ondata di privatizzazione? Come ci siamo illusi che un regolatore debole potesse frenare questa distorsione? Attribuire agli investimenti nelle infrastrutture pubbliche un rischio più alto dell’interesse a rischio zero (te lo ricordi il risk free interest?) ha dato alla finanza due vantaggi:

1. Comprare a prezzi più bassi

2. Comprare a debito, lucrando sulla differenza fra interessi e rendimenti riconosciuti agli investimenti (il famoso, o famigerato direi ora, RAB regulatory asset base).

economista
Come abbiamo fatto a non vedere che l’ingresso di investitori privati a debito avrebbe creato un peso insopportabile sui bilanci delle società pubbliche, e che alla fine i consumatori e cittadini sarebbero stati chiamati a saldare il conto?
Paradossale che in finanza l’uso del debito per aumentare l’effetto di una posizione speculativa sia stato in molti casi proibito, ma ciò non sia stato mai neanche immaginato nel caso delle privatizzazioni dei servizi, dove i danni del debito possono essere molto più grandi.
Negli anni la finanza si è accomodata al tavolo delle privatizzazioni con riacquisti di azioni proprie e dividendi spropositati, lasciando macerie qua e là. Noi accademici siamo anche un po’ responsabili.
Caro Jean Luc, un po’ mi vergogno a pensare allo scaffale riviste del nostro dipartimento pieno di pubblicazioni che inneggiavano al regolatore inglese delle acque, Ofwat, il guru della regolazione. Se penso alla misera fine di Thames Water e degli acquedotti di Londra, non so se ridere o piangere.
Eppure non era così difficile immaginare la catastrofe. Né era difficile pensare alle conseguenze di uno dei principi della remunerazione del capitale investito: se ai privati veniva riconosciuto un rendimento uguale al costo medio ponderato fra debito e equity, ebbene, caro Jean Luc, siccome il costo dell’equity era tenuto artificialmente alto dal CAPM rispetto al costo del debito, la media penalizzava equity, rispetto al debito.
Non mi capacito di come sia stato possibile questo errore. O era un errore voluto? Forse tanti studi erano pagati dalla finanza privata?
So che oggi lavori per una grande agenzia di rating. Hai fatto una carriera brillante, come meritavi. Io, dal canto mio, vedo solo un piccolo passato alle mie spalle
Chiudo qui questa lettera, finisco la birra e spero in una tua risposta.
Un abbraccio.
Il tuo professore, ex economista, George.

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