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Patto di Stabilità, in Europa v(u)oti a perdere
Post di Francesco M. Renne, commercialista e revisore, faculty member CUOA Business School, formatore in materie finanziarie e fiscali –
Il Parlamento europeo ha votato e approvato le nuove regole di bilancio dei Paesi membri, modificando così il quadro normativo del cd. Patto di Stabilità e Crescita (PSC) secondo quanto già in nuce concordato lo scorso 10 febbraio tra Commissione e Consiglio (e, prima ancora, pur subendo qualche modifica, pattuito sul finire del 2023 tra i ministri economici europei, dopo una “trattativa” durata oltre due anni). Evento atteso, dunque, e senza troppe sorprese sotto il profilo tecnico, anche. Invece, l’Italia (è il caso di dirlo: tutta) si è distinta anche in questo.
Infatti, il voto (debitamente approvato da una larga maggioranza martedì 23 aprile) è passato agli onori della cronaca non già per il suo contenuto – che invero andrebbe spiegato e qui si proverà comunque a farlo – ma per l’anomala circostanza del fatto che nessuno dei partiti italiani (salvo tre/quattro sparsi, e nemmeno a tutti i documenti posti in votazione) ha votato a favore.
“Abbiamo unito l’Italia”, è stato il laconico commento di Gentiloni, sempre più isolato Commissario europeo (in scadenza) agli affari economici.
Chi ha votato cosa e perché
Il “compromesso” – “buon” compromesso, per i relatori della proposta, il tedesco Ferber (Popolari) e la portoghese Marques (Socialisti); “basso” compromesso ma necessario, per il ministro italiano all’economia Giorgetti; “peggiorativo”, per il capo-delegazione del Pd Benifei – che ha trovato una maggioranza schiacciante (poco meno di trecentosettanta voti, contro poco più di centosessanta contrari e una sessantina astenuti, nelle varie votazioni) non è stato votato trasversalmente da tutto l’arco costituzionale italiano. Nemmeno dalle forze governative che invero lo avevano approvato. Chi si è astenuto, chi ha votato contro, chi con un distinguo e chi con un altro, fatto sta che la circostanza ha destato scalpore mediatico (non solo in Italia), tanto da rendere necessario comprendere cosa (e perché) sia successo (e ciò almeno quanto cosa si sia votato).
Il gruppo dei popolari europei, quello dei socialisti e quello dei liberali avevano trovato l’accordo politico per il testo (i testi, come vedremo in seguito) finale. Ma, ad esempio, la Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, che pure esprimono il ministro che aveva votato a favore dell’accordo, si sono astenuti, nascondendosi dietro un “non era il testo originario” e a un “nella prossima Legislatura cambieremo le regole”; i Cinquestelle hanno votato contro, stigmatizzando il ritorno all’austerità; il Pd, che pure esprime il Commissario europeo all’economia, si è astenuto adducendo che le modifiche siano un passo indietro rispetto agli obiettivi originari. Finanche i rappresentanti italiani nei liberali europei (Renew) si sono astenuti, motivando il fatto che le modifiche non abbiano reso più trasparenti i calcoli da effettuare.
Insomma, un vero en plein (in negativo), i cui effetti (in termini di credibilità) sono ancora tutta da misurare, ma che certamente – ad essere maliziosi – trova una motivazione (nascosta) nelle imminenti elezioni europee: come se tutti abbiano voluto tenersi le mani libere per poter dire in campagna elettorale che i futuri tagli di bilancio (o incrementi di imposte) dipendono “dall’Europa cattiva” e per poter essere più liberi di fare “nuove” promesse di spesa pubblica. Nessuno, insomma, ha voluto intestarsi formalmente l’approvazione delle nuove regole.
In verità, ci sarebbe stato da aspettarselo. Perché una trattativa così lunga, quasi traccheggiata, per arrivare al voto proprio a ridosso delle nuove elezioni europee, sembrava quasi fatta apposta per lasciare il cerino in mano a qualcuno. Solo che, nel frattempo, Spagna, Portogallo e (in parte) l’Irlanda, hanno migliorato i propri bilanci, mentre l’Italia no. Anzi, l’Italia ha ora un bilancio pubblico “squassato” dagli errori di previsione sugli effetti dei bonus edilizi (e, soprattutto, del tentativo surrettizio di creare moneta fiscale con la cessione plurima dei crediti fiscali connessi). Insomma, congiunzione astrale data da una somma di errori, di problemi sopravvenuti e di sirene elettorali in arrivo.
Errori, nella gestione dei tempi, in sede europea. Problemi, di bilancio soprattutto per l’Italia. Cerino, in mano alla politica italiana, che ha mal gestito sia la fase della trattativa (il “pacchetto unico” poi non rivelatosi tale, tra MES e Patto di Stabilità e Crescita, che avrebbe dovuto portare effetti positivi per noi) che l’immagine data in sede internazionale (con l’isolamento – in termini di credibilità e supporto politico – di Giorgetti e Gentiloni). Politica italiana che, di tutta evidenza, ha preferito evidentemente poter affrontare le prossime elezioni europee parlando di “austerità” e di “vincoli” europei, invece che facendo una (meritoria quanto necessaria) operazione-verità su come stiano davvero (razionalmente) le cose. Ma si sa, a dir la verità non si prendono voti.
È vera austerità?
Ma poi, è davvero “austerità” quella delle nuove regole? Quella passata? O non invece una correzione necessaria a prescindere dal fatto che ce lo dicano gli altri? Davvero l’elettore medio italiano passa senza colpo ferire dal leggere le cifre monstre del buco derivante da superbonus & affini e del nostro debito pubblico al non trarre le conseguenze che da qualche parte si dovrà pur intervenire per correggere la situazione, inveendo invece contro il moloch dell’austerità? E, peraltro, con il Paese esposto a (nuova) tempesta finanziaria senza l’ombrello del nuovo MES.
Fuor di polemica politica, parlare di austerità in un Paese dove negli ultimi tre/quattro anni si sono bruciati oltre duecento miliardi in bonus edilizi regressivi e mal distribuiti, con un deficit pari al 7,4% del Pil secondo gli ultimi dati Istat (che hanno rivisto in peggio di 0,2 punti percentuali il DEF presentato dal Governo solo l’altra settimana), con una spesa pubblica corrente pari a circa seicentocinquanta miliardi (senza contare interessi e investimenti, con le quali si arriva a circa 870 miliardi) e un debito pubblico di circa 2800 miliardi e passa, pari a circa il 139/140% del Pil, appare (non solo sotto il profilo tecnico) alquanto impreciso. Si spende tanto (troppo) e male, senza adeguato ritorno sul PIL, talché una diversa allocazione delle risorse pubbliche, riducendone sprechi, inefficienze e inutilità (i.e. cioè, una corretta spending review), appare – almeno a chi scrive – semplice buon senso.
Vero, in settori come sanità, istruzione e sostegno alle fasce più deboli si sono registrate riduzioni nell’incidenza sul PIL, pur se – in termini assoluti – negli anni il volume della spesa su tali capitoli è sempre cresciuto, ma resta più un tema di “misallocation” dei fondi pubblici, piuttosto che di “austerity”. Persino sul versante fiscale, in un Paese dalla pressione tributaria eccessiva, distribuita in maniera distorsiva per effetto di un livello patologico di evasione, l’incidenza delle entrate complessive sul PIL permangono a livelli costanti nel tempo.
Quindi no, chiamarla “austerity”, non si può (semicit.).
Ma allora, le correzioni a cui andremo incontro nel prossimo futuro per effetto delle nuove regole del Patto di Stabilità? Anche quelle non sono “austerità” (imposta, per di più)?
Invero, no; e nemmeno il problema sta nell’impianto europeo di “imposizione” di correzione dei disavanzi. Difatti, è necessario intervenire su debito e deficit “a prescindere” dalle regole europee, per il semplice fatto che la sostenibilità finanziaria (i.e. il rifinanziamento di oltre 380 miliardi di debito pubblico nei prossimi dodici mesi) ne risulterebbe minacciata se non si correggesse la rotta. Vieppiù con le revisioni di giudizio delle agenzie di rating (a cadenza semestrale) alle porte.
Per effetto del Patto o perché lo dovremmo comunque fare da soli, si dovrà quindi intervenire. E, probabilmente, questo è il vero motivo della mancanza dei dati programmatici nel DEF, presentato solo con i dati tendenziali. Non scoprire le carte (cioè, le intenzioni del Governo su come intervenire sui conti) prima del passaggio elettorale europeo, in linea con la decisione dell’astensione (formale, al voto) su un Patto già accettato (sostanzialmente, con la sottoscrizione del ministro dell’economia).
L’impatto delle nuove regole
Le regole di bilancio europee erano state sospese nel periodo pandemico, per consentire una maggiore libertà di intervento nelle misure di reazione e sostegno tanto per le spese emergenziali sanitarie quanto per lo shock economico che ne era scaturito. A crisi sostanzialmente superata, invece che riattivarle tout court, si è (meritoriamente) cercato anche di modificarne l’impianto, posto che regole comuni servono per la stabilità dell’area economica europea (per evitare eccessi di intervento pubblico nell’economia e/o eccessi di allentamento delle politiche fiscali con conseguente innalzamento della rischiosità sistemica).
Le modifiche introdotte attengono a nuove disposizioni per sostenere le spese per investimento, la fissazione di un livello concordato di riduzione dei disavanzi e dei debiti nonché di una nuova tempistica di esecuzione dei piani di rientro, cercando al contempo di rendere le norme più chiare e meglio adattabili alla situazione specifica di ciascun Paese. Questi obiettivi sono stati trasfusi in tre distinti atti normativi, un regolamento sul nuovo “braccio preventivo” (l’insieme di procedure di monitoraggio e prevenzione dei dati dei bilanci pubblici), un regolamento di modifiche al “braccio correttivo” (le procedure e gli obblighi di intervento correttivo in caso di infrazione conclamata) ed infine una direttiva di modifica dei requisiti di bilancio dei Paesi membri.
In sostanza, si è cercato di rendere più difficile l’apertura di procedure di infrazione nei casi in cui in un paese vi siano “investimenti essenziali” in corso e sono state tolte dal calcolo del deficit le spese di cofinanziamento per partecipare ai progetti finanziati della UE stessa (circa ventinove miliardi in tutta la UE, secondo fonti parlamentari europee).
Poi, pur rimanendo le soglie del 3% sul Pil per il deficit (i.e. indebitamento netto) e del 60%, sempre sul PIL, per il debito complessivo, si sono introdotti dei meccanismi di riduzione minimi (i.e. standard), salvo diverse negoziazioni del singolo Paese con Commissione e Consiglio. Le riduzioni del debito saranno in media dell’1% all’anno se il debito è maggiore del 90% sul PIL, ridotte allo 0,5% all’anno se il debito è compreso fra il 60 e 90% del PIL. Nello stesso tempo, qualora il deficit fosse superiore al 3% del PIL, questo andrà ridotto nei periodi di crescita fino almeno all’1,5%, per consentire margini di spazio in caso di ulteriori shock finanziari imprevisti.
I tempi per tali interventi vengono infine fissati in quattro anni, estendibili a sette in casi particolari, mentre ogni anno entro il 20 settembre dovranno essere presentati da ciascun Paese i “piani nazionali pluriennali di spesa” soggetti alla valutazione europea (che potranno essere soggetti a modifica in casi particolari, come ad es. per cambi di Governo nel periodo).
Quali conseguenze finanziarie?
In termini numerici, per l’Italia – dando per scontato che si aprirà la procedure di infrazione – si traduce in un “valore” (suddiviso fra maggiore crescita, minori spese e/o maggiori entrate), per centrare i due obiettivi di correzione, di circa 15/18 miliardi all’anno da trovare per la traiettoria del debito mentre, sul fronte del deficit, vi è un gap di circa 25/30 miliardi (rispetto alle previsioni tendenziali del DEF), per centrare l’obiettivo di deficit massimo all’1,5% sul PIL (tenendo conto che i due valori non si sommano). Oltre, va detto, al rifinanziamento di circa 18 miliardi per le norme fiscali agevolative (i.e. cuneo fiscale, Irpef, e altre misure minori) oggi in essere e di cui è stata promessa l’estensione al 2025.
L’incertezza su quali misure verranno adottate, peraltro, perdurerà probabilmente fin dopo le elezioni europee, se non addirittura fino a settembre, in cui dovrà essere presentato il piano pluriennale e si inizierà a lavorare sulla nuova Legge di bilancio. Ciò comporterà l’esposizione a possibili attacchi speculativi e costituisce il motivo per cui in sede europea si vuole correre ai ripari con l’attuazione credibile dei percorsi di correzione, considerando anche che il debito medio europeo è comunque salito oggi all’82% circa sul PIL complessivo.
Insomma, una seconda meta del 2024 in bilico – essendo difficile un PIL prospettico maggiore del tendenziale inserito nel DEF, già ottimistico rispetto alle altre previsioni rilasciate dalle principali Istituzioni internazionali – fra le alternative date da una stretta fiscale, una riduzione di spesa o l’esposizione a (pericolose) tensioni finanziarie.
In realtà, come in parte affermato dalla Banca d’Italia in audizione parlamentare, l’obiettivo cui tendere sarebbe quello di stabilizzare il saldo primario al +2% (occorrerà capire in quanto tempo arrivarci, per valutarne la dimensione della correzione annua); si resterebbe in disavanzo per effetto degli interessi sul debito ma, se si sta alle previsioni sui tassi, essendo questi in calo, l’effetto dovrebbe essere tale da consentirci di centrare gli obiettivi di correzione.
Mi sia concessa qui una piccola precisazione tecnica sul fatto che l’attenzione all’equilibrio del saldo primario sarebbe finanche preferibile agli sforzi di riduzione del debito “in sé”, in quanto il primo è fattore di sostenibilità del secondo. Ma, come detto prima, tale semplice verità prenderebbe mediaticamente il nome di “austerità”, poco attraente in periodo elettorale.
Resta il fatto che, invece di chinarsi sulla realtà dei numeri, parte della maggioranza, contando sulla vittoria elettorale e sul cambio di equilibri nella governance europea, si aspetta di poter modificare le regole appena approvate. Invero, ciò appare difficile poiché, ammesso che cambino davvero gli equilibri, l’approvazione è avvenuta con il voto favorevole del PPE (in maggioranza relativa) e sembra improbabile (almeno nel breve periodo) ulteriori modifiche o allentamenti dei requisiti. E che, sempre invece che chinarsi sui numeri, le opposizioni maggiori (contrarie o astenute che siano state) appaiono più propense a perseguire meno vincoli di bilancio che a intervenire correggendo gli squilibri esistenti. Non si vorrebbe intervenire sulla leva fiscale, da un parte, e non si vuole intervenire sul lato della spesa, dall’altra; resta quindi la terza alternativa, quella di un Paese esposto a maggiori rischi finanziari, che si troverà poi a dover intervenire obtorto collo di fretta e furia su entrambi i lati, fiscale e spese. Film già visto, nel 1992 e a cavallo del 2011, che sarebbe preferibile evitare di rivedere una terza volta.