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Interessi economici e guerre moderne: qual è il costo della pace?
Quanto costa la pace? Ci si domanda dopo aver terminato l’ultimo libro di Emiliano Brancaccio, docente di politica economica all’università del Sannio. I lettori di Econopoly, che ha ospitato anche l’appello per la pace sottoscritto da Brancaccio e altri intellettuali, conoscono bene il pensiero di questo autore. Ma chi non avesse avuto prima questa opportunità, può farsene un’idea esauriente leggendo “Le condizioni economiche per la pace” (Mimesis, 2024), che strizza l’occhio al noto “Le conseguenza economiche della pace “ di Keynes, da una parte, ma soprattutto, alla lunga tradizione di origine marxista secondo la quale le “condizioni materiali”, come le chiama l’autore – leggi gli interessi economici – siano una potente lente esplicativa della realtà, e in particolare dei conflitti che stiamo vivendo in questi anni tormentati.
>L’idea che i fatti dell’economia contribuiscano in maniera determinante all’evoluzione dei fatti del mondo, eredità culturale del materialismo storico marxista, viene ovviamente riveduta e corretta. Il lavoro di Brancaccio è molto argomentato e ben corredato dall’analisi dei dati. Ne risulta un discorso al termine del quale davvero si vorrebbe sapere quanto costi questa benedetta pace, solo per poter contemplare, anche solo per un attimo, il pensiero che basti staccare un assegno con molti zeri per mettere fine alle tragedie che stanno devastando la nostra convivenza.
L’economia e le condizioni ideali per scatenare i conflitti
Ma purtroppo, e Brancaccio lo sa benissimo, non è una questione di cifre da mettere sul tavolo. Si tratta nientemeno che della necessità di riscrivere le regole, innanzitutto economiche, di questa convivenza. Ciò nella convinzione, che l’autore sostiene con molti argomenti, che sia quel che accade attraverso l’infrastruttura economica a creare le condizioni ideali per il “colpo di pistola” che scatena i conflitti.
Per quanto Brancaccio non contesti le altre ragioni che generano le inimicizie fra i popoli – siano esse di natura religiosa o altro – è evidente che il suo occhio indossa la lente dell’economista per guardare attraverso la realtà. E in fondo non è così strano, visto la professione che esercita. La quale peraltro espone per sua natura a un evidente rischio “politico”, nella forma di prese di posizioni nette e decise. Rischio che Brancaccio non si perita certo di correre.
Economia e politica sono due facce della stessa medaglia, in fondo. Se non altro perché servono decisioni politiche per sostanziare i processi economici. E anche questo Brancaccio lo sa perfettamente. Il suo libro, infatti, non testimonia solo del suo impegno civile, fatto squisitamente politico, ma sostanzia anche un discorso che ha a che fare soprattutto con la grande politica.
La pace e i nuovi rapporti internazionali
Le sue condizioni per la pace implicano infatti la costruzione di un percorso fra le nazioni per arrivare, appunto, a una nuova regolazione dei rapporti internazionali che in qualche modo “imprigioni” il capitale che circola liberamente intorno al mondo generando squilibri ed è quindi, dulcis in fundo, il >villain della sua rappresentazione.
Ma se la soluzione è “politica”, l’analisi è squisitamente “economica”. La pace viene insidiata dal debito estero americano, considerato la ragione dell’emergere del friend shoring che gli Stati Uniti hanno iniziato a praticare in risposta al tentativo dei suoi creditori di sfuggire alla “trappola” dei rendimenti dei titoli di stato statunitensi. Questi ultimi non bastano neanche a coprire i flussi di reddito che ogni anno devono trasferire agli Usa, per acquistare invece pacchetti azionari di aziende Usa di sicuro più remunerativi. In sostanza, gli squilibri economici correnti risultano essere gli attivatori delle tensioni internazionali, perciò l’unico modo per arrivare alla pace è intanto quello di lavorare per ridurli.
L’argomento economico, che puntella le riflessioni successive di Brancaccio, ha una sua solidità, ma solleva una domanda metodologica. Possiamo ancora sostenere, in un discorso di scienza sociale, la premessa epistemologica che “verum scire est per causa scire”? Che la conoscenza, vale a dire, proceda dalla conoscenza delle cause? Esiste il rischio di semplificare troppo, individuando rapporti causali, uno scenario complesso come quello di una crisi internazionale?
La pace e perché riformare il sistema monetario
Detto ciò, il libro contiene diverse riflessioni interessanti. A cominciare dall’idea che sia possibile ricercare alcune leggi/trend che dall’esame del passato ci conducano verso futuri probabili. Anche questa riflessione è figlia della tradizione della filosofia della storia, che tanto del lavoro di Marx ha ispirato, ma è un filone di ricerca molto fertile.
Un primo esito si coglie già in questo libro. L’analisi comparata delle vicissitudini del sistema monetario internazionale all’epoca del gold standard, nato e cresciuto sotto l’egemonia britannica, con quello seguito alla fine del sistema di Bretton Woods, voluto e poi rinnegato dal nuovo egemone statunitense, fa indovinare che anche la nostra attuale configurazione – che qualcuno ha definito un “non sistema monetario” – abbia bisogno di aggiustamenti. E questo per la semplice ragione che si accompagna a numerosi squilibri, siano essi o no il fattore di rischio della pace.
L’idea di Brancaccio che il sistema monetario sia da riformare non è certo isolata. C’è una notevole letteratura, sia scientifica che giornalistica, sul sistema monetario. Usare una moneta nazionale per gli scambi internazionali genera inevitabilmente degli squilibri sulle partite correnti. E’ già successo, sta succedendo di nuovo, e succederà ancora. In tal senso l’opera di Brancaccio è un ottimo promemoria.
Le soluzioni proposte dal libro
Un altro punto interessante del libro è quello delle soluzioni che propone. Il riferimento a Keynes non si esaurisce nel richiamo all’opera che lo rese celebre nel 1919, ma si estende fino a un’opera meno nota ma egualmente importante che l’economista britannico scrisse in occasione della conferenza di Bretton Woods: quello che fu poi chiamato il piano Keynes che dovette confrontarsi con le idee americane, non a caso poi risultate vincenti, del piano White.
Brancaccio sa che qualunque riforma internazionale, ben meno impegnativa di quella di un sistema monetario, richiede che i vari attori coinvolti adottino un approccio cooperativo. Ed è quindi consapevole di quanto sia irta questa strada, in un momento nel quale i rapporti fra costoro – a cominciare da Usa e Cina – non brillino certo per la loro qualità.
A che cosa dovrebbero rinunciare gli Stati Uniti
Come premessa gli Usa dovrebbero essere disposti a mettere in discussione il ruolo internazionale della loro valuta. E servirebbero solidi argomenti per convincerli. Il libro ricorda infatti che gli americani riescono anche ad avere flussi attivi dai loro debiti esteri, che rimangono quindi sostenibili, almeno da un punto di vista tecnico.
A questa complessità politica, se ne aggiungono altre di natura squisitamente storica. Il piano di Keynes prevedeva, per grandi linee, controlli sui flussi internazionali dei capitali e la fondazione di un’entità internazionale che facesse da camera di compensazione fra le varie partite correnti. La prima misura serviva – e servirebbe ancora secondo Brancaccio – a raffreddare le correnti finanziarie che generano le bolle e le fibrillazioni dei mercati. La seconda misura serviva a limitare gli squilibri correnti, prevedendo magari dei meccanismi di penalizzazione non solo dei passivi eccessivi, ma anche degli attivi. Gli Usa non ne vollero sapere nel 1944. Perché dovrebbero accettare adesso?
Storia come lente di ingrandimento delle tendenze e approccio cooperativo
E poi ci sono gli altri grandi player, ovviamente. La Cina, ma anche l’Ue. Sempre la storia – il ventennio di disordini monetari fra la prima e la seconda guerra globale – ci ricorda quanto sia difficile costruire un sistema condiviso quando prevale l’inimicizia. E purtroppo dal 2008 in poi, ossia da quando la frattura delle relazioni internazionali è diventata profonda, i nostri tempi hanno iniziato a somigliare a quel terribile ventennio.
Che fare quindi? Le due idee di Brancaccio di usare la storia come lente di ingrandimento delle tendenze e di mettere al centro un approccio cooperativo per risolvere i dilemmi del nostro tempo sono sicuramente interessanti e meritevoli di essere ulteriormente approfondite. Quindi è auspicabile che questo libro abbia un seguito. Come contributo offriamo alcune riflessioni.
Va bene la cooperazione, ma come si superano gli egoismi?
La prima riguarda il modo in cui si può incentivare la cooperazione fra paesi diversi in un momento in cui sembrano prevalere gli egoismi. Da un punto di vista tattico, potrebbe essere più percorribile la costruzione di un percorso comune su temi specifici fra i paesi che hanno relazioni più strette. Le economie avanzate dispongono dello strumento del G7 che può funzionare come organismo multilaterale per decisioni anche rilevanti, come è successo anche dopo la grande crisi del 2008, che successivamente, se si trova il consenso, si possono allargare anche al G20.
Nel merito della questione, proprio l’esperienza del piano Keynes, e prima ancora dell’età della sterlina, mostra con chiarezza che nessuno rinuncia a uno strumento egemonico senza un buon motivo. L’America continuerà a emettere dollari finché qualcuno li comprerà, e poiché questo qualcuno non ha molte alternative – l’euro finora è solo un eterno secondo senza neanche un mercato dei capitali integrato, mentre lo Yuan è inconvertibile – questo implica che l’America non smetterà mai di iniettare dollari nel sistema monetario.
Diverso sarebbe se l’emissione della moneta – o dei titoli nei quali è denominata – avvenisse per fare qualcosa per la quale nessun bilancio nazionale, neanche quello statunitense, è abbastanza capiente. Ad esempio per un dossier come la transizione energetica, che peraltro è un tema di rilevante importanza anche per i paesi emergenti.
Una nuova Bretton Woods per ridisegnare gli equilibri globali?
Se si replicasse a livello G7, includendo anche chi ci vuole stare, il modello del Next generation EU, finalizzando l’emissione di titoli denominati in una unità di conto internazionale – sul modello dei diritti speciali di prelievo del Fmi – per raccogliere capitale da utilizzare per la trasformazione energetica, anche un grande paese come gli Usa potrebbe trovarlo interessante. Il fatto che questo possa dar vita a un mercato internazionale di titoli denominati in una valuta che è un basket di valute di riserva servirebbe anche a togliere pressioni al dollaro, che, gradualmente, mano a man che la domanda di questi titoli aumenta vedrebbe normalizzare la propria presenza nelle riserve internazionali.
Gli Stati Uniti potrebbero trovare conveniente un graduale disimpegno dalle loro responsabilità monetarie internazionali, se ben compensato da un graduale impegno internazionale nelle loro necessità interne. Non serve una nuova Bretton Woods per ridisegnare gli equilibri globali. Serve un’intesa su un dossier che riguarda tutti. E da lì cominciare un percorso cooperativo.
Una pace vera per evitare le guerre di oggi e quelle di domani
E’ sicuramente utile, come fa Brancaccio, ricordare il 1943, ma lo è altrettanto immaginare il 2043, ormai vicino, quando la transizione demografica da un parte, e quella energetica dall’altra, metteranno drammaticamente sotto pressione i bilanci degli Usa, della Cina e anche dell’Ue, tanto per cominciare. Se i problemi economici sono forieri di possibili conseguenze drammatiche, come illustra il libro, allora nessun governo di buon senso dovrebbe trascurare ambiente e demografia.
Le condizioni economiche della pace, per dirla con l’autore, potrebbero essere costruite semplicemente ricordando che lo scopo non è semplicemente sfuggire alla guerra di oggi, ma soprattutto evitare quelle di domani. Ricordando, dati alla mano, che siamo tutti sulla stessa barca. In fondo il libro di Brancaccio parla di questo.
Emiliano Brancaccio
Le condizioni economiche per la pace
17,10 euro
Mimesis, 2024