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Cybersecurity ONU: manganello contro la libertà d’informazione?
Post di Mario Di Giulio[1] –
In un mondo che, per tante attività, migra nella sfera del cyberspazio e da esso dipende in maniera sempre più crescente, la regolamentazione dello stesso in chiave di sicurezza (cybersecurity) diviene campo di battaglia delle opposte visioni del mondo in termini politici e anche geopolitici.
Alcuni giorni fa si è conclusa, in sede ONU, l’ultima sessione dell’Ad Hoc Committee for a comprehensive “international convention on countering the use of information and communications technologies for criminal purposes”, che dovrebbe portare alla proposta di una bozza di convenzione da sottomettere all’approvazione dell’assemblea generale.
La proposta della convenzione parte dall’elemento fattuale che nel cyberspazio non esistono confini determinati e che, in assenza di accordi tra stati, si possano creare zone franche in cui i criminali possano godere di fatto dell’immunità.
Valida e meritevole è l’intenzione, ma nella concreta declinazione dell’accordo appaiono molte criticità che conducono stati, osservatori politici e organizzazioni per la tutela dei diritti dell’uomo ad opporsi a tale proposta.
L’ambiguità del linguaggio utilizzato nel formulare le definizioni della convenzione sono tali da indurre molti, infatti, a ritenere che la convenzione possa essere utilizzata, più che in chiave di cybersecurity, in chiave autoritaria, per reprimere la libertà di espressione. Nei reati da essa previsti, infatti, non appaiono soltanto gli attacchi alle infrastrutture digitali, ma anche i reati che sono condotti per via informatica, nei quali, quindi, la piattaforma informatica costituisce lo strumento di diffusione.
Di fatto, anche in questo caso, si assiste a una contrapposizione di vedute, che si concretizza in diverse proposte nella stesura delle previsioni.
Cybersecurity o filtro a opinioni scomode?
Da un lato, i regimi autoritari, che ritengono che, entro i propri confini, lo stato possa fare quello che vuole (i cosiddetti affari interni) e, dall’altro, le democrazie occidentali, che mettono al centro la tutela dei diritti umani fondamentali quale limite all’azione di ogni stato. Il fronte occidentale, poi, non è così compatto, dal momento che esiste una frattura da un lato e l’altro dell’Oceano Atlantico con gli Stati Uniti d’America meno propensi alla tutela della privacy di quanto lo siano gli stati europei, o quanto meno l’Unione Europea.
Gli USA, infatti, hanno ribadito in questa sede che il diritto alla privacy non rientra nei diritti riconosciuti nei trattati ONU, così aprendo il varco a zone grigie che giustificano l’interferenza di uno stato nella sfera privata degli individui, distante dal rispetto dei principi di proporzionalità, necessità e legalità che dovrebbero porre limiti a tale interferenza.
I principi sottesi alla tutela dei diritti umani fondamentali, quali quelli alla libertà di espressione e quella d’informazione, che la convenzione sulla cybersecurity potrebbe compromettere, sono al centro di una vibrante azione di attenzione da parte di organizzazioni non governative, quali Human Rights Watch.
Il timore è infatti quello che possano essere qualificati quali reati contro la sicurezza informatica l’espressione di opinioni invise ai governanti.
Sul punto il timore dei giornalisti africani è marcato, considerato che già vari stati del Continente hanno adottato strumenti normativi nazionali che si muovono in questa direzione, con il corollario di arresti avvenuti in Niger, Nigeria, Tunisia e Zimbabwe.
Perché le reazioni africane dovrebbero interessarci?
Il rischio di una convenzione internazionale sulla cybersecurity che possa essere utilizzata come una sorta d’investitura di liceità, per imporre limitazioni alla libertà d’informazione, è critico sia per chi lo subisce sia per coloro che sono in relazione con lo stato con deriva autoritaria (sia tale relazione basata su accordi commerciali o semplicemente dovuta a connessioni geografiche).
In questo periodo, in cui tanto si parla del Piano Mattei e dell’approccio non predatorio che gli stati più sviluppati dovrebbero avere nel relazionarsi con gli stati africani, spesso si dimentica che gli africani hanno ormai una classe media significativa e che spesso i governanti hanno titoli di studio più elevati di tanti politici nostrani ed europei; da qui, l’improbabilità che vi possa essere la possibilità di approfittare di condizioni di ingenuità legate ad asimmetrie informative.
La grande platea di stati extra africani che rivolgono la propria attenzione all’Africa esclude inoltre che vi possano essere situazioni di forza che impongano condizioni non negoziate con un singolo stato non africano a fare da padrone (se, ad esempio, la Cina chiede troppo, vi sarà certamente l’India o il Giappone a proporre altro, oppure la Turchia o qualche altro stato europeo).
Il peso della corruzione
L’approccio predatorio, pertanto, difficilmente si può concretizzare nella proposizione di accordi non bilanciati; ciò può invece essere il risultato di accordi tra investitori e singoli politici, in cui la mancanza di equilibrio tra le prestazioni delle parti nominali di un accordo è compensata da scambi economici non trasparenti con chi di fatto decide.
In tanti stati africani il peso della corruzione è chiaro, anche se spesso si tenta di celarla rendendo segreti gli accordi per motivi di sicurezza nazionale.
Da lì ogni pretesto è buono per perseguire chi cerca di fare chiarezza o pone soltanto il dubbio se l’accordo con uno stato straniero o una multinazionale siano stati raggiunti nell’interesse dello stato o, invece, nell’interesse del capo di stato corrotto con un cospicuo conto in qualche paradiso fiscale.
Libertà d’informazione unico presidio
Di fatto, l’unico presidio contro questo tipo di accordi è dato da quel cane da guardia che da sempre è la libera stampa, unico reale presidio che, quanto meno, riesce ad alzare il velo su ciò che in realtà accade.
Non è un caso che dove la stampa funziona e non è gravata da lacci e lacciuoli normativi, gli investitori stranieri siano più attenti a relazionarsi con l’opinione pubblica e, in genere, dimostrino un maggiore rispetto e attenzione delle realtà locali, come evidenziato anche da uno studio del 2023, finanziato dalla Fondazione Ford. Tale studio, eseguito dalla Carnegie Endowement for International Peace, mostra infatti come grandi società d’investimento cinesi assumano diverse condotte (meno o più attente all’opinione pubblica locale) nei confronti dell’Etiopia, caratterizzata da una stampa molto governativa, e del Kenya, che ha invece una stampa di tipo anglosassone, autonoma e indipendente, sebbene i due paesi siano tra di essi confinanti.
Cosa c’entra la libertà d’informazione con cybersecurity e migrazioni
In questo senso si può dire che la libera stampa limita gli approcci predatori che il Piano Mattei vorrebbe evitare.
A ciò si aggiunga che, da sondaggi di opinione dello scorso anno (Afrobarometer), emerge che, sebbene – di massima – gli africani siano contrari ai colpi di stato, i golpe sono invece accettati quando sono volti a rimuovere governanti corrotti. E si sa, i colpi di stato difficilmente conducono alla restaurazione di sistemi democratici, con il corollario di guerre e guerriglie che spesso li accompagnano. Da qui alle migrazioni forzate il passo è breve, frutto, come spesso accade, di situazioni di grave instabilità.
Allora, piaccia o no e a prescindere dalle opinioni che ognuno di noi possa avere sui fenomeni migratori e sull’accoglienza, l’Italia è un hub tra Europa e Africa solo per chi la raggiunge in barcone, perché il Mediterraneo è un mare che non separa ma unisce: un presidio più attento alla preservazione e alla stabilità delle democrazie potrebbe pertanto valere più dei tanti accordi con i dittatori di turno, con i quali tentare di facilitare i rimpatri e fermare i flussi migratori.
Per questo motivo, anche le critiche della stampa africana alla convenzione cybersecurity ci riguardano, perché una stampa indebolita rende deboli anche le democrazie e non assicura certo stabilità.
[1] Responsabile Africa Desk dello studio legale Pavia e Ansaldo e professore a contratto di Law of Developing Countries all’Università Campus Bio-Medico di Roma