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Armi in Medio Oriente, uno sguardo agli interessi in gioco
Il 26 gennaio 2021, l’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, si recava al Quirinale per rassegnare le dimissioni. Qualche giorno dopo, com’è noto ai più, Mattarella avrebbe ricevuto Mario Draghi per conferirgli l’incarico di formare il nuovo governo. La regia della crisi era stata manifestamente firmata e orgogliosamente rivendicata da Matteo Renzi, il quale, tuttavia, proprio in quei giorni, non mancava di suscitare clamore nell’opinione pubblica per i propri legami, in qualità di consulente e conferenziere, con l’Arabia Saudita e, in particolare, con Sua Altezza Reale Muhammad bin Salman.
Il turbamento della coscienza collettiva poteva dirsi più che giustificato, dal momento che l’Arabia Saudita era – ed è – il paese in cui la violazione dei diritti umani è, per paradosso, una specie di fenomeno di costume. Tra le altre cose, il principe ereditario, nel 2021, era già stato ufficialmente accusato di essere il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Ahmad Khashoggi. Le accuse sarebbero state archiviate poco dopo in seguito alla concessione dell’immunità da parte del Dipartimento di Stato USA durante l’Amministrazione Trump.
Due clienti di tutto riguardo: Arabia Saudita e Qatar
A questo punto, bisognerebbe chiedersi sulla base di quale criterio l’Italia, proprio nel 2021, abbia venduto armi per 47 milioni all’Arabia Saudita. Certo, la cifra non è elevatissima, specie se si considera che il nostro paese, nello stesso anno, esportò armi per 4,6 miliardi di euro.
La questione, però, non è affatto semplice. In primo luogo, è bene ricordare che l’autorizzazione alla vendita delle armi può essere concessa unicamente dal Ministero degli Esteri, che funge anche da organo di controllo, e può essere rivolta solamente a quei paesi che non sono soggetti a embargo da parte degli organismi internazionali e, soprattutto, non hanno attaccato un altro paese.
Il protagonismo di Riad
Ebbene? È risaputo che, nel 2015, l’Arabia Saudita, che è il più grosso importatore di armi di tutto il Golfo Persico, ha attaccato lo Yemen, la cui condizione umanitaria è disastrosa, anche se i media internazionali se ne curano molto poco. Se si leggono le Relazioni sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, relazioni che, ogni anno il Governo presenta al Parlamento, non si fa fatica a rilevare che la vendita di armi all’Arabia Saudita è proseguita anche nel 2022; anzi, il volume d’affari è cresciuto fino a 123 milioni.
Sempre nel 2021 e sempre sulla base delle summenzionate Relazioni, il primo acquirente dei ‘prodotti’ italiani, con 814 milioni, era il Qatar, un altro paese accusato di perenne violazione dei diritti umani e, in ultimo, anche di avere finanziato Hamas e gruppi terroristici affini, anche se le accuse non sono mai state documentate a sufficienza e la fonte originaria della collusione è Israele.
Se le guerre e le armi fanno bene all’economia
Nel giugno del 2014, su The New York Times, Tyler Cowen pubblicò un articolo il cui titolo può fare impallidire i lettori poco avvezzi alle letture sull’economia di guerra: The Lack of Major Wars May Be Hurting Economic Growth, ovverosia La mancanza delle grandi guerre potrebbe danneggiare la crescita economica. Nel corpo dell’articolo, leggiamo: “Counterintuitive though it may sound, the greater peacefulness of the world may make the attainment of higher rates of economic growth less urgent and thus less likely” (Sebbene possa sembrare controintuitivo, la maggiore tranquillità nel mondo potrebbe rendere meno urgente e, di conseguenza, meno probabile il raggiungimento di tassi di crescita più elevati).
La letteratura scientifica in materia di relazione diretta tra guerra e crescita economica è molto ricca. La professoressa Loredana Panariti, titolare della cattedra di Storia Economica all’Università degli Studi di Trieste, in un lavoro del 2020, intitolato, non a caso, La guerra fa bene all’economia?, ha documentato che il PIL degli Stati Uniti, dal 1938 al 1944, ebbe un incremento del 114%. Nello stesso tempo, parecchi studiosi affermano che si poté uscire dalla crisi del 1929 proprio grazie alla Seconda Guerra Mondiale.
Nello stesso contributo, che fa parte degli atti del settimo convegno Convivere con Auschwitz (22 gennaio 2020), Panariti riporta il frammento di un’intervista rilasciata da Douglass North al Sole 24 Ore, in cui il Nobel per l’economia afferma che “non siamo usciti dalla depressione grazie alla teoria economica, ne siamo venuti fuori grazie alla Seconda Guerra Mondiale”.
Stati Uniti primi esportatori di armi al mondo
Sulla base dei riscontri scientifici e delle ipotesi circa i benefici economici delle guerre, non possiamo fare a meno di ricordare che gli Stati Uniti sono i primi esportatori di armi del mondo, anche se non disdegnano affatto l’acquisto. Nei primi tre posti della classica dei più grandi venditori di ami, figurano proprio tre società statunitensi, la Lockheed Martin, la Raytheon Technologies e la Boeing, il cui fatturato va da 35 a 60 miliardi l’anno.
Non sembra un caso allora che gli Stati Uniti siano stati protagonisti della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, della Guerra Civile Russa, della Guerra di Corea, della Guerra del Vietnam, dell’invasione di Grenada, di quella di Panama, della Prima e della Seconda Guerra del Golfo, dell’operazione Restore Hope in Somalia, dell’attacco contro i serbi della Bosnia, del conflitto in Kosovo, della Guerra in Afghanistan e della Guerra in Libia.
E chi vende le armi a Israele?
Oggi, gli Stati Uniti rappresentano il primo fornitore di armi di Israele. Nell’ultimo decennio, infatti, circa il 70% delle armi israeliane è arrivato dagli USA, che, in questo campo, hanno fatto grandi affari anche con l’Arabia Saudita. Si ritiene che, dal 1961 a oggi, la fornitura sia stata arricchita ogni anno. Nel 2014, Amnesty International aveva denunciato la vendita di armi a Israele, giacché si era scoperto che gli Israeliani avevano utilizzato le bombe al fosforo bianco, atto, questo, considerato crimine di guerra. Naturalmente, niente impedì agli americani di procedere oltre; anzi, si attestò che la vendita crebbe in modo significativo, a dispetto delle denunce.
Il secondo maggior fornitore di armi per Israele è la Germania, con una quota del 24%. La fonte di cui ci serviamo è autorevole e al di sopra di ogni sospetto: lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), “un istituto indipendente, impegnato in ricerche su conflitti, armi, controllo delle armi e disarmo”. L’Italia si colloca al terzo posto col 5,6%. Un ulteriore piano di riflessione si può conquistare mettendo a sistema i dati pubblicati dal SIPRI e quelli ricavati dalle Relazioni al Parlamento sulla vendita dei materiali di armamento.
Dove vanno le armi che vende l’Italia
Sappiamo con certezza che il 52% delle armi italiane finisce nei paesi NATO e nei paesi UE. Nel famigerato 2021, dopo il Qatar, i nostri migliori clienti, paradossalmente, erano proprio gli Stati Uniti, che in Italia avevano speso addirittura 763 milioni. Seguivano la Francia con 306 milioni e la Germania con 263. Nel 2022, il nostro primo acquirente è stata la Turchia, con 598 milioni, mentre i clienti americani, sempre al secondo posto, sono passati a 532 milioni. Pure la Germania ha acquistato più armi in Italia, raggiungendo la cifra di 407 milioni, mentre il Qatar ha scelto di ‘risparmiare’, fermandosi a 255 milioni.
Se osservato alla luce dell’attuale conflitto israelo-palestinese, il fenomeno degli intrecci commerciali è per lo meno ‘bizzarro’: le virgolette sono obbligatorie, allo stesso modo in cui l’aggettivo “bizzarro” ha valore eufemistico. L’Italia vende la maggior parte della propria produzione di armi a Stati Uniti e Germania, che, a propria volta, vendono la maggior parte della propria produzione di armi a Israele.
Tenendo conto delle implicazioni macroeconomiche di questa ‘triangolazione’ e dei ‘benefici di guerra’ ampiamente documentati dalla letteratura scientifica, un’autentica richiesta di “cessate il fuoco” da parte di NATO, ONU o UE è pressoché impossibile. Ci rendiamo conto dell’effetto iperbolico di quest’ultima affermazione, ma ragionare in termini di ‘logica mediocre’, di tanto in tanto, giova alle buone conclusioni.
E chi fornisce armi ad Hamas? Strani incroci
È doveroso, a questo punto, fare delle considerazioni in merito alla fornitura di armi ad Hamas, sebbene non si abbiano ‘relazioni ufficiali’, per così dire. È risaputo ormai che il principale fornitore è l’Iran, dato che Teheran ha confermato in più circostanze il supporto alle brigate Al Qassam e alle brigate Al Quds, mentre, com’è altrettanto noto, il trasporto avviene all’interno di quei tunnel che Israele tenta continuamente di smantellare. La maggior parte dei media, avvalendosi degli analisti militari di turno, ne analizza la tipologia o la quantità, ma, molto di rado, naturalmente si hanno riscontri validi e i numeri sono spesso frutto di ‘ipotesi osservazionali’.
Si parla anche del contributo della Corea del Nord e della Siria, ma resta sempre il problema della ‘controprova’. In altri termini, l’unica certezza è l’Iran. Forse, non è l’unica, anche se, per acquisire la seconda, occorre procedere per interrogazioni imbarazzanti e retoriche: dato che, secondo quanto è emerso di recente, (1) il Qatar, ogni anno, avrebbe versato centinaia di milioni ad Hamas, (2) ospita i dirigenti di Hamas e, ancora e (3) dialoga apertamente con Hezbollah, com’è possibile che il nostro paese proprio al Qatar venda le armi?
Sorprendenti intrecci finanziari
La logica mediocre potrebbe essere riscattata, per così dire, o riqualificata grazie alle trame finanziarie. La più importante azienda di produzione di armi in Italia è Leonardo, il cui 30,2% appartiene al Ministero dell’Economia e delle Finanze. Tra i numerosi investitori, troviamo, però, anche BlackRock, l’illustre società d’investimento newyorkese che vanta un patrimonio totale di circa 10.000 miliardi.
BlackRock è presente anche nell’azionariato delle statunitensi succitate, Lockheed Martin (6,78%), Raytheon Technologies (7,07%) e Boeing (6,07%), mentre Vanguard Group, altra società d’investimento statunitense, oltre ad avere quote in Lockheed Martin (8,99%), Raytheon Technologies (8,69%) e Boeing (7,87%), ha l’1,33%, tramite Vanguard International Stock Index-Total Intl Stock Indx, e lo 0,79% tramite Vanguard Tax Managed Fund-Vanguard Developed Markets Index Fund, di Rheinmentall, il colosso tedesco delle armi.