categoria: Vicolo corto
Sono un manager serio, scherzo molto
Post di Silvano Joly, young boomer torinese, Business Development Director di Altea Federation* –
Si parla assai di una nuova forma di management, quella gentile, che supera la tradizionale organizzazione piramidale e si orienta ad un modello basato sulla fiducia che modifica la classica figura del manager che gestisce e controlla e lo porta invece ad aiutare i collaboratori a svolgere al meglio le attività, non con indicazioni assertive ma partendo invece dall’ascolto dei collaboratori, dalla comprensione dei loro desideri, senza biasimare gli errori, ma facendo in modo che gli stessi diventino occasione di crescita e maturazione.
Harward Business Review ha dedicato un ottimo articolo al caso Enel dove “leadership gentile” è il modello da seguire per i dirigenti che esercitano la loro leadership attraverso l’accrescimento empatico delle soft skill ed il potenziamento di quelle hard con sistemi formativi tradizionali. Con la leadership gentile si deve accettare un confronto tra superiori e subalterni, ammettere il dibattito nelle riunioni, praticare l’ascolto come esercizio attivo e bidirezionale. Un manager non deve dare ordini senza aver prima aver ascoltato i pensieri dei colleghi e capito quali compiti apprezzano svolgere ed in quale ambiente si trovano meglio, secondo lo schema che si vede qui sotto.
Come diceva Gabriele D’Annunzio, già citato su già citato su Econopoly nel 2020: “l’arte di comandare e non comandare”: ci si sposta dal “comando e controllo” alla relazione ed alla fiducia, si nota il talento della risorsa e lo si usa per il raggiungimento degli obiettivi. Come leggiamo “l’attenzione sarà volta alla cura delle persone, dando loro ascolto e aiutandole a cogliere le opportunità della trasformazione che stiamo vivendo. Ciò contribuirà a creare un clima di lavoro sempre più sereno nel quale le persone sentiranno la fiducia e saranno sempre più responsabilizzate e autonome.”
I 10 pilastri per la leadership del manager gentile
In molte aziende sono stati pubblicati anche manifesti di valori per i manager ed i dipendenti, che si ispirano a fiducia, empatia, responsabilizzazione, delega, trasparenza e inclusione, come quello descritto su Forbes da Alessandro Zollo, amministratore delegato di Great Place to Work che conta 10 pilastri su cui basare la propria leaderhip gentile e probabilmente efficace:
1 Ascolto attivo.
2 Motivational speaking.
3 Empatia
4 Interpersonal skill.
5 Gestione dei conflitti.
6 Leadership collettiva.
7 Comunicazione efficace.
8 Time management.
9 Feedback
10 Flessibilità
Dieci chiari indirizzi, un modus operandi, una vera check list. Ma se pensiamo alla gentilezza, ci viene in mente anche molto altro: come ci insegna il Una Parola al Giorno la parola gentile deriva tramite il greco ethnicos dal latino gentilis: cioè, nobile, patrizio. Una condizione sociale ma anche spirituale dove qualità morali e comportamentali positive come il garbo, la grazia e la cortesia erano proprie del lignaggio. Pure in inglese, kind significa anche generous, helpful, ma anche “tipo”, “genere”. In tedesco, poi, kind è bambino, archetipo della gentilezza.
Quindi gentilezza non è solo affettata cortesia, ma anche gioia, allegria, scherzo. Eh già, scherzo ma quanto può scherzare un manager?
Il manager che usa l’umorismo per mandare un messaggio utile
Personalmente lo faccio e l’ho sempre fatto, usando l’umorismo e la celia per dire le cose più dirette senza offendere in modo che il messaggio arrivi al destinatario con un sorriso ed un invito a riflettere. Ad esempio, una volta, in seguito all’ennesima riorganizzazione, mi trovai ad avere solo tre persone a riporto, una delle quali junior, un po’ under probation che mi era stata affidata proprio per migliorarne la prestazione.
Oggi è un senior vice president, a capo di un’intera divisione in Asia; ma allora era un giovane sales rep, più entusiasta che efficace e soprattutto non troppo consapevole dei rischi che correva dopo un paio di trimestri “bucati”. Per dargli il giusto set up usai una battuta: eravamo alla macchina del caffè con il giovane collega ed il country manager, un americano che era al corrente della situazione e mi chiese “How is this guy doing?”.
Il giovane virgulto sorrise felice: nella sua giovanile incoscienza si aspettava un complimento! Mi venne così in mente di dire: “So far, he’s the third in my ranking”. Lì per lì il giovane collega sorrise entusiasta, essere terzo non era poi così male, poi fece due conti e capì che essere l’ultimo nella mia classifica non era una buona notizia ed insieme affrontammo il suo Improvement Plan con un approccio non solo gentile ma anche scherzoso.
Questo episodio lo ricordiamo ancora sia con il collega che con il country manager, che raccomandava sempre: “Always be selling, always be hiring, always be ranking”. Quella volta aggiungemmo “even if joking”!
Si può ridere sul posto di lavoro?
Non tutti lo approvano: persino il capolavoro di Umberto Eco, Il nome della Rosa, in una delle scene più rappresentative tanto nel film quanto nel libro, affronta il tema dello scherzo e del ridere sul lavoro. Jorge rimprovera i monaci scoperti a ridere di gusto Verba vana aut risui apta non loqui, descrivendo il riso come una smorfia che deforma il viso e lo rende simile ad una scimmia. Il mitico Guglielmo da Barskerville, ribatte che il riso è caratteristica propria degli uomini, non degli animali e cita il secondo libro della “Poetica” di Aristotele, che sarebbe dedicato alla commedia e all’arte del riso, ma sulla cui esistenza si discute.
Eco ci spiega bene perché Jorge ritenga scherzare così pericoloso: “Il riso uccide la paura, e senza la paura non ci può essere la fede. Senza paura del demonio non c’è bisogno del timore di Dio”. Il Nome della Rosa, nella ironica descrizione di Umberto Eco stesso è l’unico giallo lungo 500 pagine e ambientato in un’abbazia medioevale, ma è un capolavoro anche quando ci aiuta a capire come usare lo scherzo ed il ridere come risposta e superamento a un dogmatismo che non c’era solo nell’abbazia di Jorge da Buskos ma anche in molti uffici dove verbosi manager ostentano gentilezza ma non accettano ironia, umorismo, scherzo come modo di comunicare, interagire, esprimere un’opinione.
Se il leader sa usare bene l’umorismo
Molta letteratura manageriale conferma che l’umorismo sul lavoro aiuta a moderare l’influenza degli eventi, sia positivi che negativi, con l’umorismo si riduce lo stress e si aumenta la “simpatia” tra colleghi: con un commento divertente si può creare un clima “serio ma allegro”, che aumenti la collaborazione fra membri di un gruppo, la disponibilità a darsi reciprocamente supporto emotivo e aumentando l’autoefficacia. Se benevolo l’umorismo benevolo aumenta anche la soddisfazione sul lavoro dato che il divertimento induce uno stato d’animo positivo, che si traduce in un maggior grado di soddisfazione lavorativa scongiurando i rischi di demotivazione e burnout. Altrettanto, può offrire la possibilità di discutere eventi personali dolorosi riducendo angoscia e ansia: infatti quante volte dopo una battuta, ci siamo sentiti dire “Grazie, che mi hai fatto ridere, passo un momentaccio”?
Anche sul sito di ManagerItalia se ne è parlato nel 2019, mettendo in evidenza che l’umorismo sul lavoro aiuta a cambiare prospettiva, permette di vedere situazioni in modo diverso. Anche se nessuno ha ancora avuto il coraggio di definirlo una caratteristica di leadership, l’umorismo è senz’altro uno de strumenti che un leader può usare.
Nell’articolo, si legge che “il 40% del turnover del lavoro è dovuto allo stress. Il vantaggio di lavorare in un ambiente meno stressante riduce le spese sanitarie, che sono quasi il 50% rispetto agli ambienti dove è elevato il livello di stress.”
Se anche il manager usa un meme
Un bell’esempio di utilizzo dell’umorismo “professionale e costruttivo” lo ricordo anche da parte di un collega project manager, che preoccupato dello staff che l’azienda gli dava per un progetto affiancò alla slide con il Gantt di progetto un meme che fece sorridere tutti ma gli permise di sollevare il problema del sottodimensionamento del team senza drammi, eccolo qua:
A proposito di grande capacità di utilizzo dell’umorismo come non ricordare l’Avvocato Agnelli, un ufficiale gentiluomo, grande viveur passato alla storia solo per quello che indossava ma anche per quanto ha fatto e detto, con frasi che sono rimaste impresse nella memoria collettiva come quella che chiariva la sua leadership in azienda, rispetto ai familiari ed ai suoi manager, nonostante il suo fosse un diritto ereditario: “Tutto quello che ho, l’ho ereditato. Ha fatto tutto mio nonno. Devo tutto al diritto di proprietà e al diritto di successione, io vi ho aggiunto il dovere della responsabilità”. Questa è la mia preferita ma ne potete leggere altre qui .
E persino il suo successore Sergio Marchionne, certamente uno che scherzava poco, arrivato nel 2004 in un’azienda che perdeva 5 milioni al giorno e trovandola vuota pronunciò la celebre freddura “La gente dov’è?’ ‘Sono in ferie’. ‘Ma in ferie da cosa?”. Il grande manager iniziò con una battuta un rivoluzionario percorso di trasformazione di business, ben descritta qui a partire da quel commento all’apparenza scherzoso, che però raddrizzo la schiena ad una dirigenza che aveva perso motivazione e lucidità.
A leggere i libri, la storia è piena di umorismo costruttivo: da Leonida che ribatté a Serse che minacciava di oscurare il sole con le frecce “Vorrà dire che combatteremo all’ombra”, alla critica di Churchill a noi Italiani “capaci di perdere le partite di calcio come guerre e le guerre come partite di calcio”. Fino al senatore Andreotti, che stilettava con il suo umorismo persino le FS dicendo che esistono due tipi di pazzi: “Quelli che credono di essere Napoleone e quelli che credono di risanare le Ferrovie dello Stato”; ed al Generale Dalla Chiesa, che iniziò più di un discorso pubblico con una barzelletta proprio sui Carabinieri.
I manager che scherzano e gli autori tv
Addirittura, Antonio Amurri, autore di tanti programmi televisi e bellissime canzoni, aggiunse un versetto alla Genesi scrivendo che “quando Dio cacciò Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre comunicò all’uomo che si sarebbe guadagnato il pane col sudore della fronte, e alla donna che avrebbe partorito con dolore. Non poté, causa la particolare situazione, aggiungere quella che sarebbe stata la punizione più sottile e perfida: E tutti e due avrete una suocera”.
Ma per capire quanto si possa scherzare sul lavoro ho potuto parlare con una persona serissima: Diego Parassole, che tutti conosciamo per gli spettacoli teatrali e televisivi, Zelig in primis ma non solo, ma che dal 1995 si occupa di formazione, neuromarketing, storytelling e team building e che affronta il tema dell’ambiente e della sostenibilità in 3 spettacoli, dove la sintesi è assoluta grazie ad una fulminante battuta: “Stanno arrivando i cambiamenti climatici e non ho niente da mettermi!”.
Il suo sito BrainSpeaking è una miniera di spunti tra video, webinar e speech, e nella nostra chiacchierata Diego mi ha detto tante cose che provo a riassumere:
Ottantanove miliardi di neuroni
“Anche se il nostro cervello ha quasi cento miliardi di neuroni (la neuroscienzata più nota al mondo Lisa Feldam Barret suggerisce 89 miliardi), non sempre funzionano benissimo, o non sempre noi sappiamo farli funzionare al meglio. In anni di teatro, televisione, radio ho imparato che anche quando si parla di cose serie, non occorre essere seriosi e che una risata contribuisce ad aumentare il livello di attenzione dei partecipanti, l’apprendimento, l’adesione al concetto che si esprime, che sia una lezione di neuroscienze, un business plan, una presentazione commerciale.”
“Tuttavia se l’umorismo è per tutti, non tutti sono per l’umorismo: ad un manager occorre preparazione e consapevolezza in modo da non passare da un sano sense of humour ad un offensivo sarcasmo con effetti controproducenti.”
“Non bisogna solo tenere conto delle policy aziendali e della politically correctness, ma imparare a dire le cose nella chiave e formula giusta. Ad esempio, c’è un bellissimo libro – Essere paziente – di Walter Allievi, che lo ha scritto dopo un grave incidente d’auto, di cui è stato l’unico sopravvissuto e nel quale ha subito gravi conseguenze. Allievi ci racconta ciò che gli è capitato con tono umoristico e noir e riesce così a spiegare e insegnare qualcosa di estremamente drammatico in modo empatico e nonostante tutto divertente agli altri, che siano medici, sanitari o semplici esseri umani che nel gioco della vita potrebbero trovarsi a vivere quanto gli è capitato.
Il libro anticipa la attuale vita di facilitatore dell’apprendimento che anche con l’umorismo aiuta se stesso e lo usando come una risorsa di coping, ovvero una vera e propria strategia mentale per affrontare e risolvere le situazioni più problematiche.” (altri dettagli sul coping a questo link al Giornale Italiano di Psicologia).
“In azienda la raccomandazione resta quella di usare non lo spirito tout court fatto di battute o storiella, ma la dialettica dello humour con la stessa cura e abilità con cui si pensa ad un CdA. Non è questione di policy ma di consapevolezza: con l’umorismo si fa squadra, con la presa in giro ed il sarcasmo no.”
“Occorre cercare la leva dell’umorismo affiliativo, che sdrammatizza il problema, fa vedere la soluzione e che fa sorridere non solo il manager parla ma anche il collaboratore che ascolta.”
Quindi, umorismo sì o no in azienda?
Ringraziando ancora Diego mi faccio e vi faccio la fatidica domanda: umorismo sì o no in azienda? Io dico certamente sì! E ne sono così convinto che vi confido che spesso uso una sua vecchia battuta durante i colloqui di lavoro.
Lui la disse a Zelig anni fa e faceva pressappoco così: “La mia ragazza a letto era bravissima. E non ero il solo a dirlo.” Io la parafraso a modo mio quando mi chiedono di descrivermi: “Sono piuttosto bravo nel mio lavoro. E non sono il solo a dirlo.”
*Già Manager presso Innovation Leader come PTC, Reply, Sap, Dassault Systemes, Centric Software, Syncron e in Aziende pre-IPO, collabora con varie Università Italiane ed è mentore pro-bono di start-up high-tech, oltre che amico da sempre della Piccola Casa della Provvidenza (Cottolengo), il più antico istituto dedicato all’assistenza di persone con gravi disabilità –