categoria: Res Publica
Decreto lavoro, 5 motivi per non esagerare con le critiche
Post di Alessandro Paone, avvocato giuslavorista e Partner di LabLaw Studio Legale –
Le critiche rivolte nei confronti della prima misura in materia di lavoro varata dal Governo – già bollato decreto “precari” e attaccato finanche dalla Ministra del Lavoro della Spagna che l’ha ritenuto strumento “contro lavoratori e lavoratrici” – sono poco pertinenti sul piano tecnico e generano una fastidiosa confusione ai fini dell’inquadramento operativo che si deve dare al provvedimento per capirne la portata, anche per muovere critiche che abbiano un senso.
Un decreto da valutare per la sua natura dichiaratamente pratica che prova a mettere ordine nei sussidi di povertà
Prima di tutto la portata del decreto è minore di quel che si pensa: difatti il testo non ha alcuna pretesa di rinnovare il “lavoro” tant’è che non ne ha le caratteristiche e neppure la levatura. È – più realisticamente – uno strumento volto ad introdurre alcune norme di semplificazione tecnica ed incentivazione economica, funzionali a sostenere la domanda di occupazione straordinaria del periodo, e quindi redditi e contribuzioni diffuse, riducendo in molti campi i costi, aumentando i netti in busta paga ed offrendo sostanziosi incentivi assunzionali.
Dall’altro lato – ed è questo il tasto politico più discusso – smantella la struttura del reddito di cittadinanza introducendo una nuova misura di assistenza sociale, l’assegno di inclusione, rivolto in via esclusiva alle persone ritenute fragili e bisognose, separandole dalla platea di coloro i quali sono in condizioni di lavorare, verso i quali lo Stato fa una scelta e riserva un canale di accesso al mondo del lavoro, che quindi assume un valore diverso, esegetico, rispetto alla tendenza squisitamente passiva ed assistenziale del reddito prima maniera, il cui (finto) legame con le politiche attive ha generato una distorsione applicativa oggettivamente riscontrata da chiunque e ha provocato un enorme spendita di denaro pubblico senza generare alcun vantaggio sociale apprezzabile nel lungo periodo.
NEET: finalmente qualcuno se n’è accorto
Tra le varie misure approvate assume un valore indubbiamente positivo la previsione dell’introduzione di incentivi assunzionali a favore dei NEET: una copertura di 12 mesi pari al 60% della retribuzione mensile lorda per le assunzioni a tempo indeterminato, anche in somministrazione o in apprendistato, ridotto della metà nel caso di contratti a termine ma cumulabile con gli sgravi contributivi per l’assunzione di giovani e donne e con altri esoneri o riduzioni in vigore.
Certo la misura è acerba, limitata dalla sua non strutturalità (scade il 31 dicembre) e dall’approccio aziendalistico benché vi sia ampia consapevolezza che per invogliare questi giovani così particolari al lavoro non basta agire sulla proposta di lavoro ma sulle loro vite; è comunque un primo passo, sentito e misurabile in termini di risorse, che segna un punto fondamentale per avviare un ragionamento su strumenti più ampi e articolati.
Semplificazione contrattuale, i direttori del personale ringraziano senza alcun abbassamento delle tutele
Favorevole per le aziende, questa volta, è la correzione delle storture apportare nella gestione quotidiana dal cd. decreto trasparenza, che ha obbligato per mesi i datori alla costruzione di documenti complessi di cui non v’era alcun bisogno, aggiungendo complessità e burocrazia nemica della produttività e, all’atto pratico, anche della reale legalità, risolvendosi in esercizi di stile in ciclostile. Così adesso basta inserire nel contratto di lavoro un rinvio alla norma o alla contrattazione collettiva, anche aziendale, per fornire al lavoratore le informazioni richieste dalla legge su durata del periodo di prova, diritto alla formazione, ferie, congedi, preavviso in caso di recesso, importo iniziale della retribuzione e relativi elementi costitutivi e orario normale di lavoro.
Welfare: bene la soglia a 3.000 euro ma attenzione alla platea
Bene anche l’innalzamento della soglia per il riconoscimento, limitatamente al periodo d’imposta 2023, di fringe benefit entro il limite complessivo di euro 3.000, meno la limitazione della platea ai soli lavoratori dipendenti con figli. Vero è che la coperta è corta, ma dobbiamo pur sempre ricordare che nel nostro sistema il welfare è strutturato come un coacervo di misure la cui finalità sociale è incentrata sulla misura stessa (previdenza, assistenza, anche sanitaria, ecc.) giammai sui destinatari, così introducendosi sul piano tecnico una stortura che andrebbe velocemente riallineata, auspicabilmente con l’estensione del beneficio alla totalità dei dipendenti (cassa permettendo).
Contratti a termine: ci vuole il coraggio di compiere scelte politiche
Finalmente vengono superate le causali “impossibili” introdotte dal decreto dignità. Al loro posto si prevede il rinvio ai “casi previsti dai contratti collettivi” e solo in loro mancanza si potrà fare riferimento, fino al 30 aprile 2024, ad “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuata dalle parti”.
Il canale di individuazione delle causali che legittimano l’apposizione del termine al contratto torna ad essere quindi la contrattazione collettiva senza nessun rischio di precarietà o lesione di tutele, poiché l’impianto di norme limitatrici previsto dal Dlgs 81 del 2015 non cambia, e il complesso di tali limiti è conforme all’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE ed è finanche più incisivo dei livelli minimi imposti dall’Accordo quadro medesimo.
Resta il dubbio di una ri-esplosione del contenzioso sulle causali e la loro genericità applicativa, con riedizione di quanto avvenuto ai tempi del Dlgs 368 del 2001 che è costato risorse oggi non più disponibili nelle casse di molte aziende. Sarebbe valsa la pena, anzi si doveva, superare totalmente le causali puntando al limite temporale secco: è compatibile con le norme comunitarie ed è espressione di una scelta di campo chiara e univoca.
Un buon decreto cui dovrà fare seguito un ampio rimaneggiamento del lavoro in Italia
Insomma, riportato nella sua giusta dimensione, il decreto lavoro corrisponde agli obiettivi dichiarati di contrasto alla povertà assoluta, di tutela del potere d’acquisto dei salari, della spinta alle assunzioni e dell’incremento dei tassi di occupazione, con una efficacia certo ancora tutta da vedersi.
Ma il lavoro ha dinanzi a sé sfide enormi, ben maggiori di quelle qui nemmeno lontanamente agganciate, e che si muovono nei perimetri pesanti della bassa natalità, l’over formazione dei giovani, il loro allontanamento da lavori classici, la contrazione della platea contributiva, il mutamento delle filiere globali, l’avvento dell’intelligenza artificiale, l’inadeguatezza diffusa dei salari e l’assenza di regole sula rappresentanza e i contratti collettivi.
Tutto questo richiede un approccio organico alla materia, frutto di una visione precisa e di scelte politiche che dovranno poi trovare espressione nelle norme chiamate a realizzarle.
Di buono possiamo dire che l’approccio pratico dimostrato, scevro da ideologismi, rappresenta un inizio confortante, da arricchire con il confronto e il dialogo con tutti gli attori del sistema, soprattutto quelli contrari.