categoria: Res Publica
La politica locale non crea crescita: per il Sud meno regioni e più stato
Pubblichiamo l’ultimo di quattro lavori premiati da Tortuga Call for Policy Papers, un concorso di policy brief rivolto a studenti e studentesse di magistrale e ultimo anno di triennale, e giovani ricercatori e ricercatrici. L’obiettivo è individuare alcune proposte di policy di potenziale impatto per lo scenario italiano e raccogliere idee dalle nuove generazioni. Di seguito l’articolo scritto dal vincitore della categoria senior, Leonardo D’Amico (dottorando presso l’Università di Harvard).
A questo indirizzo è disponibile il lavoro vincitore della categoria junior, mentre qui e qui è possibile leggere i contributi degli altri gruppi finalisti della categoria senior.
L’Italia spenderà circa 104 miliardi di euro nei prossimi sei anni per lo sviluppo del Sud. Questa cifra equivale a più del 25% del Pil del Mezzogiorno nel 2019 – un ammontare che fa ben sperare. Speranze che vengono affievolite, però, dalle esperienze passate. È dal 1950, infatti, che lo Stato spende quasi ogni anno all’incirca il 3% del Pil del Sud per il suo sviluppo. Eppure, se guardiamo ai dati, oggi il Sud è indietro rispetto al Nord tanto quanto lo era 70 anni fa.
Dove hanno successo le politiche di sviluppo europee?
Guardare alle singole politiche non rende la prospettiva più rosea. Lo hanno fatto due economisti della Banca D’Italia, Accetturo e De Blasio, in un libro che si chiama appunto “Morire di aiuti”. Un altro esempio viene da Becker, Egger e von Ehrlich, un gruppo di ricercatori tedeschi e austriaci, che mostrano come le politiche di sviluppo europee siano riuscite a creare crescita solo nelle regioni ad alto capitale umano. Ovvero: queste politiche rischiano di fallire proprio dove ce n’è più bisogno, nelle regioni dove i lavoratori più talentuosi sono costretti ad andare via, lasciandosi indietro una struttura produttiva obsoleta.
Cos’è andato storto? È importante rispondere al fine di riuscire a usare questi fondi al meglio, evitando gli errori del passato. Non c’è tempo da perdere: i divari territoriali sono ingiusti e deprimono le possibilità economiche e sociali delle persone. Rendono l’Italia un paese peggiore.
Il fallimento dei fondi al Sud
C’è una robusta letteratura che studia vari fattori—corruzione, poca capacità istituzionale e miopia tra gli altri—che possono spiegare perché queste politiche di sviluppo falliscono. Al nocciolo, queste cause si possono riassumere così: i fondi falliscono perché nel Sud non si riesce a usarli bene. In effetti, alcune volte non si riesce addirittura a usarli proprio: ad oggi, l’Italia è riuscita a spendere solo il 60% dei fondi assegnati, contro una media europea del 73%. L’implicazione di policy è che bisogna migliorare la qualità delle istituzioni: combattere la corruzione, la mafia, migliorare la classe dirigente. Sono sicuramente cose fondamentali su cui il Governo si deve impegnare, ma sono difficili e richiedono tempo.
Nel lavoro presentato recentemente a Tortuga propongo una spiegazione aggiuntiva, la cui soluzione è di più immediata esecuzione. Una causa del fallimento di queste politiche è che chi controlla i fondi potrebbe non volerli usare in modo produttivo. In altre parole: non è (solo) mancanza di capacità, ma di volontà.
I governatori e la gestione dei fondi
Questi fondi sono infatti gestiti in gran parte (65% nei prossimi sei anni) dai governatori regionali. I governatori, però, hanno l’obiettivo di essere rieletti, non necessariamente quello di creare crescita. Perché i due obiettivi dovrebbero confliggere? Pensiamo a un caso semplice: siete un governatore di una regione in cui la maggior parte dei lavoratori è impiegata nella manifattura tradizionale, nei servizi locali e nel pubblico. Ci sono anche alcuni lavoratori che potrebbero essere impiegati in settori ad alto contenuto tecnologico, che sono programmatori, analisti finanziari o “data scientist”. Molti di questi, però, sono andati via—magari avrebbero anche voglia di tornare, ma non con le condizioni di oggi. Cosa fareste?
Rappresentare i lavoratori che non ci sono, ma che potrebbero esserci, non porta voti. Chi se n’è andato, infatti, non vota più. Rappresentare quelli che ci sono sì. Questo vorrà dire che gli interventi saranno tutti volti a sussidiare e aiutare i settori già presenti, cioè gli stessi settori che sembrano non riuscire a rendere il Sud più ricco. Quindi, la ricetta politica sarà più sussidi a ciò che c’è già (e che non funziona), meno a ciò che potrebbe esserci.
Perché al Sud non si sussidia lo sviluppo tecnologico
Per esempio, meglio sussidiare le vecchie manifatture e migliorare le strade locali, piuttosto che investire per sostenere l’export (per esempio sviluppando grandi infrastrutture) o per lo sviluppo tecnologico. D’altronde, nel Sud ci sono poche imprese che esportano—il Mezzogiorno è infatti responsabile solo per il 10% delle esportazioni nazionali—e poche ad alta intensità tecnologica. Chi è quindi che metterebbe i propri camion sulla nuova grande autostrada? Chi beneficerebbe dagli incentivi per lo sviluppo tecnologico? Le imprese che potrebbero nascere nel Sud e che però, non essendo già lì, non votano e non vengono quindi rappresentate.
Sotto queste premesse, non è sorprendente che i fondi lasciati in mano ai governi locali possano fallire. L’evidenza empirica sembra dare validità a quest’idea. Un esempio fra tutti è quello della Cassa per il Mezzogiorno: lo sforzo dello Stato per modernizzare il Sud fra il 1950 e il 1984. Guardando ai dati, la Cassa sembra aver funzionato fra il 1950 e la metà degli anni ’70, tanto che gli storici lo chiamano il “periodo d’oro” della convergenza. Il Sud cresceva più del Nord e l’Italia cominciava ad apparire sempre più omogenea. In questi anni, la Cassa era sotto il controllo dello Stato e della Banca Mondiale, con interventi decisi in modo centrale e coordinato.
La nascita delle Regioni, il declino della Cassa
L’inizio del declino coincide, fra le altre cose, con una riorganizzazione del modello di governance della Cassa volto a dare più spazio alle neonate regioni (istituite nel 1971). Via i delegati dello Stato e spazio a quelli regionali e a programmi scelti di concerto con le Regioni. Proprio in questi anni la Cassa perde il suo slancio trasformativo e diventa preda di logiche clientelari e assistenzialistiche, che poco hanno a che fare con la crescita.
I governi regionali e gli investimenti in innovazione
Un esempio più attuale viene dai fondi di coesione europei, che studio nello stesso lavoro menzionato sopra, con l’intento di comparare i fondi gestiti centralmente e quelli gestiti dalle regioni. In Italia, ad esempio, guardo alle differenze di spesa fra i Pon (“Programmi Operativi Nazionali”) e i Por (“Programmi Operativi Regionali”). Faccio lo stesso per tutti gli altri paesi europei e trovo che, in media, i governi regionali nelle regioni con più lavoratori senza laurea spendono meno in incentivi per lo sviluppo tecnologico delle imprese, la ricerca e l’innovazione.
Questo però non vale per i programmi gestiti centralmente, che investono in sviluppo tecnologico anche nelle regioni a più basso capitale umano. Trovo anche che investire meno in sviluppo tecnologico si associa a meno posti di lavoro creati per euro speso, il che suggerisce che questi tipi di (mancati) investimenti siano importanti per la crescita.
La discrezionalità politica un danno per il Sud
Infine, sempre focalizzandosi su questo tipo di politiche, un gruppo di ricercatori italiani, Cingano, Palomba, Pinotti e Rettore, stima che, quando i politici locali hanno voce in capitolo su come allocare i sussidi alle imprese, il costo per posto di lavoro creato aumenta dell’11% nel Sud. Aumenta invece meno al Nord (del 6%), suggerendo che la discrezionalità politica sia particolarmente dannosa nel Mezzogiorno.
Se è quindi vero che gli incentivi dei governi regionali sembrano in contrasto con le prospettive di crescita, che fare? Offrono una risposta la Commissione Europea con il Ngeu e l’esperienza della Banca Mondiale con la Cassa: criteri di condizionalità per l’erogazione dei fondi e meccanismi di co-governance. Bene quindi includere le regioni, che portano importante conoscenza del territorio, ma solo sotto osservazione e guida del governo centrale, che ha una visione d’insieme e non è soggetto alle pressioni politiche locali. Ripetere gli errori del passato è un peccato che non ci si può permettere.